Antipatro di Tarso (in greco antico: Ἀντίπατρος ὁ Ταρσεύς?, Antípatros ho Tarséus; II secolo a.C.) è stato un filosofo greco antico di scuola stoica.
Discepolo e successore di Diogene, fu maestro di Panezio intorno al 144 a.C. (Cic. de Divin. 1.3, de Off. 3.12). Plutarco lo cita insieme a Zenone di Rodi, Cleante e Crisippo di Soli come uno dei principali filosofi stoici (de Stoicorum Repugnantibus p. 144) e Cicerone lo ricorda per la sua acutezza (De Officiis 3.12). Della sua vita personale non si sa nulla, eccetto che morì suicida bevendo un veleno.
Secondo le testimonianze degli autori antichi (Plutarco Moralia p. 514d.; Eusebio de Praeparatione Evangelica 14.8.), Antipatro prese parte alle dispute filosofiche tra la sua scuola e l'Accademia ma, sentendosi inferiore al contemporaneo Carneade nel dibattito in pubblico, decise di proseguire la polemica soltanto per iscritto; per questo fu soprannominato καλαμοβόας ("strepitante con la penna").
Fu autore di un trattato Sugli dei in cui affermava di credere in un dio "benedetto, incorruttibile e benigno verso gli uomini" e biasimava coloro che attribuivano alle divinità "la generazione e la corruzione", dottrina attribuita a Crisippo (Plut. de Stoic. Rep. p. 192).
Scrisse inoltre due libri sulla divinazione, in cui affermava la validità di questa pratica giustificandola con la preveggenza e la benevolenza della divinità, interpretava i sogni come visioni soprannaturali del futuro e raccoglieva storie di divinazione attribuite a Socrate (Cic. de Divin. 1.3, 20, 39, 54).
Secondo le fonti (Stobeo de Fato, 16), riteneva che il fato fosse una divinità; Ateneo (VIII p. 346) gli attribuisce un trattato intitolato Περὶ Δεισιδαιμονίας (Sul timore degli dei).
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