L'epìtesi, dal greco epíthesis, "il porre (thésis) sopra (epí)", "sovrapposizione"[1], è un fenomeno di fonetica storica che consiste nell'aggiunta di un suono o di una sillaba non etimologica alla fine di una parola. È anche detta paragòge[2].
Di seguito alcuni esempi di epitesi:
In italiano antico era anche frequente dopo la vocale:
Il contrario dell'epitesi è l'apocope.
Molte lingue e dialetti dell'Italia meridionale ritengono ancora questo fenomeno fonetico sulle parole ossitone, cioè caratterizzate dall'accento sull'ultima sillaba oppure sui monosillabi.
In lingua siciliana questo fenomeno è tipico nel parlato. Viene infatti spesso applicato un -ni enclitico o anche un -i enclitico. Accade quindi che molte parole diventino:
Identico discorso vale anche per il salentino in cui si dice:
In alcune varianti del calabrese l'epitesi si ha in:
Il toscano contempla sì e sìe[7], chi e chie. Discorso simile nell'abruzzese, in cui si hanno scène (sì, "sine") e none (no, "none").
Queste parole sono in ogni caso corrette sia con epitesi che senza.
È frequente in lingua sarda: dal momento che tante parole finiscono per consonante, spesso si usa una vocale "d'appoggio", soprattutto quando la parola è alla fine di una frase. Ad esempio: pitzinnas /piˈtt͡sinnaz(a)/ "ragazze"; tue andas /ˈtu.ɛ ˈandaz(a)/ "tu vai"; ite cheren? /ˈite ˈkɛrɛn(ɛ)/ "cosa vogliono?". Generalmente, la vocale paragogica riprende l'ultima vocale della parola; tuttavia, a seconda della varietà di sardo, questa regola può cambiare: ad esempio, per dire ses "(tu) sei", in logudorese abbiamo /ˈsɛz(ɛ)/, mentre in campidanese /ˈsɛz(i)/; per "(lui/lei) è", abbiamo est, pronunciato in log. /ˈɛst(ɛ)/ e in campidanese /ˈɛst(i)/.