I giorni contati | |
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Salvo Randone e Franco Sportelli in una scena del film | |
Lingua originale | italiano |
Paese di produzione | Italia |
Anno | 1962 |
Durata | 106 Min |
Dati tecnici | B/N |
Genere | drammatico |
Regia | Elio Petri |
Soggetto | Tonino Guerra, Elio Petri |
Sceneggiatura | Elio Petri, Carlo Romano, Tonino Guerra |
Produttore | Anna Maria Campanile |
Casa di produzione | Titanus |
Distribuzione in italiano | Titanus |
Fotografia | Ennio Guarnieri |
Montaggio | Ruggero Mastroianni |
Musiche | Ivan Vandor |
Costumi | Graziella Urbinati |
Interpreti e personaggi | |
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Doppiatori italiani | |
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«Il mio film è una protesta contro l'ossessione della vita moderna: tutti corrono, s'affannano, hanno fretta, una fretta di arrivare..., ma a che cosa? A una triste vecchiaia carica di rimpianti per ciò che si è sacrificato e perduto.»
I giorni contati è un film del 1962 diretto da Elio Petri. Di carattere neorealista, la pellicola è considerata tra le massime espressioni del cinema di Petri e offre in assoluto una delle migliori interpretazioni di Salvo Randone.[2][3][4]
Roma. Cesare, idraulico (detto "stagnaro") romano cinquantatreenne, dopo la prematura scomparsa della moglie si ritrova a provare la vera solitudine. Un giorno assiste in tram alla morte per infarto di un passeggero che aveva all'incirca la sua età. L'episodio turba profondamente Cesare, che lascia la sua occupazione di idraulico e, ossessionato dal pensiero di avere i giorni contati, decide di recuperare il tempo perduto. Comincia così un cammino che lo porta in posti precedentemente a lui negati per via del suo lavoro, come aeroporti e stabilimenti balneari; partecipa quindi a mostre d'arte e si mette alla ricerca degli affetti (Giulia, la sua amante di un tempo) e dei luoghi (il paese natale) dimenticati. Ma è ormai troppo tardi e ogni tentativo di riabbracciare la giovinezza svanita si rivela un fallimento.
Non percependo alcuno stipendio, presto esaurisce il denaro che aveva conservato e che in parte aveva dato ad una giovane conoscente perché ella non si prostituisse. Vaga per la città ai confini della legalità, tra la piccola malavita romana e coloro che si dedicano all'accattonaggio nel tentativo di sottrarsi alle dure leggi dell'esistenza, cui, tuttavia, è costretto ad arrendersi nuovamente. Non avendo il coraggio di farsi spezzare un braccio in un tentativo di truffa ai danni della compagnia di assicurazione, si redime e torna a lavorare. Giorni dopo, assopitosi durante un viaggio di ritorno in tram, viene scosso dal controllore, ma Cesare non risponde.
A questo secondo film di Petri non sono estranee esperienze autobiografiche: anche il padre del regista a 50 anni aveva lasciato il lavoro. Evidente, in un film che tratta di quotidiana alienazione, costruito su di un lungo pedinamento del protagonista con riprese (anche a mano) di una macchina mobile e curiosa, in set reali, sorpresi nella loro prosaica quotidianità, il debito con la Nouvelle vague, eloquentemente indicato da Tullio Kezich: "...Petri è il primo regista italiano che sovrappone alla lezione neorealistica le insofferenze di ripresa e di montaggio della Nouvelle vague: il taglio delle sue scene si rifà a Godard, il senso di immediatezza che hanno molti episodi deriva da una tecnica sbrigativa ed improvvisa di ispirazione francese; il regista non si preoccupa di costruire (come in "L'assassino"), preferisce aggredire la realtà senza pregiudiziali narrative"[5].
La descrizione di uno sbandamento esistenziale[6] trova il sostegno della fotografia di Ennio Guarnieri, in particolare nella sovraesposizione delle riprese alla luce del giorno, con effetti di abbagliamento e insostenibilità sul protagonista (ad. es. all'uscita dal tram in cui è morto il passeggero o negli stabilimenti balneari)[7].
Gianni Rondolino in un suo scritto uscito all'epoca del film nelle sale cinematografiche ritiene esemplare questa opera di Elio Petri quale prodotto legato al «profondo rinnovamento estetico nel cinema contemporaneo» mettendolo in relazione genericamente con il cinema d'oltralpe.[8] Un film «che può essere considerato uno dei risultati più validi (...) di un cinema psicologico moderno, più interessato alla rappresentazione degli stati d'animo e delle idee che alla costruzione del personaggio secondo le regole classiche della drammaturgia cinematografica».[8] Attraverso il personaggio dello stagnaro Cesare, l'opera «trasporta in ambiente popolare una problematica di tipo esistenziale, incentrata sul problema della morte ricordando a volte Bergman e Antonioni, ma mantenendo (...) una personalissima autonomia di stile».[9] Georges Sadoul individua nei modi in cui la storia è trattata, anche un certo humour.[10]