James Kenneth Galbraith (29 gennaio 1952) è un economista statunitense, figlio dell'economista e diplomatico John Kenneth Galbraith.
Figlio di John Kenneth e di Catherine (Kitty) Atwater Galbraith, ha ottenuto il BA, magna cum laude, alla Harvard nel 1974 e il dottorato (PhD) a Yale nel 1981, entrambi in economia. Dal 1974 al 1975, Galbraith ha studiato come “Marshall Scholar” al King's College a Cambridge.
Dal 1981 al 1982 Galbraith ha fatto parte dello staff del Congresso degli Stati Uniti d'America, anche in qualità di “executive director” (direttore esecutivo) del “Joint Economic Committee” (comitato economico congiunto). Nel 1985 è stato studioso ospite alla “Brookings Institution”. Attualmente è docente alla “Lyndon B. Johnson School of Public Affairs” e al dipartimento di Politica alla Università del Texas di Austin.
È presidente degli “Economists for Peace and Security” (economisti per la pace e la sicurezza), precedentemente chiamati “Economists Against the Arms Race” (economisti contro la corsa agli armamenti) e poi “Economists Allied for Arms Reduction” (ECAAR, economisti alleati per la riduzione delle armi), una associazione internazionale di economisti professionisti preoccupati per la pace e la sicurezza. È anche “senior scholar” al “Levy Economics Institute” del Bard College e direttore del “Progetto disuguaglianze” dell'Università del Texas.
Nel marzo 2008 Galbraith ha utilizzato la 25ª “Distinguished Lecture” di Milton Friedman per lanciare un attacco frontale al “free market consensus” (consenso al libero mercato), specialmente nella sua versione monetarista.[1] Questa espressione fa riferimento ad un altro “consensus”, il famoso Washington consensus, che è stato alla base di molte delle politiche economiche perseguite dalle istituzioni internazionali e da governi dagli anni novanta. La sua posizione è quella per la quale una rigorosa politica economica keynesiana sarebbe la soluzione della crisi economico-finanziaria del 2007-2008, mentre politiche monetariste peggiorerebbero la recessione. Verso la fine del 2008 molti politici nel mondo hanno iniziato ad ispirarsi alle raccomandazioni di Galbraith, in quello che il Financial Times ha dipinto come "un impressionante rovesciamento dell'ortodossia degli ultimi decenni".[2] Nel 2009 aderisce al progetto per la realizzazione del film "Soldiers of Peace"[3][4] che coinvolge 14 paesi nel mondo nella realizzazione di una pace globale. È tra i sostenitori della teoria della Moneta Moderna e nel 2010 scrive la prefazione del libro "Seven Deadly Innocent Frauds of Economic Policy" (Le sette innocenti frodi capitali della politica economica) dell'economista statunitense Warren Mosler.[5][6]
Fra i libri di James K. Galbraith: Balancing Acts: Technology, Finance and the American Future (1989) (Tecnologia, Finanza e il futuro dell'America. Un bilancio). Created Unequal: The Crisis in American Pay (1998) (Creati disuguali: la crisi dei salari americani). Inequality and Industrial Change: A Global View (2001) insieme a Maureen Bemer (Disuguaglianza e il cambiamento industriale: uno sguardo globale), The Predator State. How conservatives abandoned the free market and why liberals should too (2008) (Lo Stato predatore. Come i conservatori hanno abbandonato il libero mercato, e perché i progressisti dovrebbero fare altrettanto), The End of Normal (2014).
Contribuisce a rubriche sul The Texas Observer e scrive regolarmente per The Nation, The American Prospect, Mother Jones, e The Progressive. Suoi pezzi d'opinione sono apparsi nel The New York Times, nel The Washington Post, nel The Boston Globe e diversi altri giornali.
James K. Galbraith ritiene che l'America di oggi sia diventata preda di una “classe di predatori” ricchi che controllano lo stato:
«Oggi, il segno del moderno capitalismo americano non è né la benefica concorrenza né la lotta di classe, né un'onnicomprensiva utopia del ceto medio. È la predazione invece ad essere diventata la caratteristica dominante, un sistema cioè nel quale i ricchi banchettano a spese del sistema, in decadenza, costruito per il ceto medio. La classe di predatori non è costituita dalla totalità dei ricchi: può anche essere osteggiata da molte persone di ricchezza equiparabile. Essa è tuttavia la forza egemone, quella che definisce le caratteristiche. I suoi attori controllano completamente lo stato nel quale viviamo.»
L'uso del termine “predatorio” richiama un elemento molto presente nella cultura sociologica americana, in particolare nell'analisi di Thorstein Veblen sull'origine della proprietà, che consisterebbe nella predazione (prima delle donne, poi delle cose) ad un certo punto dello sviluppo della società barbarica.
Galbraith è stato anche fortemente critico della politica estera dell'Amministrazione Bush relativamente all'invasione dell'Iraq del 2003:
«C'è una ragione per la vulnerabilità degli imperi. Per difendersi dall'opposizione serve la guerra, una costante, implacabile, infinita guerra. La guerra è una rovina, dal punto di vista legale, morale, ed economico. Può rovinare i perdenti, come nel caso della Francia di Napoleone, o della Germania imperiale nel 1918. Ma può rovinare i vincitori, come successe agli Inglesi e ai Sovietici nel XX secolo. La Germania e il Giappone al contrario si sono ripresi bene dalla seconda guerra mondiale, in parte perché gli si risparmiarono le riparazioni e non dovettero sprecare il patrimonio nazionale nella difesa dopo la disfatta... Il vero costo economico della costruzione dell'Impero di Bush è duplice: distoglie l'attenzione dai pressanti problemi economici nel paese e spinge gli Stati Uniti su di un cammino imperiale di lungo periodo che è economicamente rovinoso.»
È anche un implacabile critico della sua professione:
«I principali membri attivi della professione di economista, la generazione che ha attualmente 40-50 anni, si sono uniti in una specie di politburo del pensiero economico corretto. In generale, come ci si deve aspettare da qualsiasi club di gentiluomini, si sono messi dalla parte sbagliata in tutte le questioni politiche importanti, e non solo di recente ma da decenni. Predicono disastri quando non succedono. Negano la possibilità di eventi che invece accadono. Si esibiscono in una sorta di fatalismo sulla “inevitabilità” di un problema (la disuguaglianza salariale) che subito dopo inizia a diminuire. Si oppongono alle riforme più fondamentali, più decenti e importanti, offrendo al loro posto dei placebo. Sono sempre sorpresi quando qualcosa di negativo (come una recessione) accade veramente. E quando finalmente si accorgono che certe posizioni sono divenute insostenibili, non rimettono in discussione le loro idee. Semplicemente, cambiano discorso.»
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