Paolo di Taranto (fl. XIII secolo) è stato un francescano e alchimista italiano vissuto verso la fine del XIII secolo.
In uno dei suoi scritti è definito «lettore di alchimia in Assisi»[1] presso i frati francescani. La sua identità, sulla base degli studi di William R. Newman,[2] sembra corrispondere a quella dello pseudo-Geber, oggi indicato anche col nome di «Geber latino», autore di un corpus alchemico di cui si presentava come un semplice traduttore in lingua latina.[3]
Tra i lavori di Paolo di Taranto, quello di più certa attribuzione è una Teorica et practica in cui difende i principi dell'alchimia,[4] descrivendone le conoscenze dottrinali e le operazioni di base.[5] Il trattato è una rielaborazione del Liber secretorum de voce Bubacaris (dal titolo originale Kitab-al-Asrar), e del Liber de aluminibus et salibus, entrambi dell'alchimista persiano Al-Razi.[6]
Vi sono però vari indizi che suggeriscono come Paolo sia anche l'autore del ben più noto testo alchemico Summa perfectionis magisterii,[2] generalmente attribuito allo pseudonimo di Geber, alias Jabir ibn Hayyan, celebre alchimista arabo dell'VIII secolo, in cui sono esposte dettagliatamente le sette operazioni classiche dell'alchimia: sublimazione, distillazione, calcinazione, soluzione, coagulazione, fissazione, fluidificazione.[7]
Il testo della Summa, che si rifà in particolare al Liber de septuaginta e al Liber Misericordia del corpus geberiano, oltre che ai due trattati di al-Razi sopra menzionati, avrebbe costituito il cardine della tradizione alchemica occidentale dei secoli a venire.[3] In esso prevale un approccio tecnico e sperimentale, che lo avvicina allo spirito pratico di Ruggero Bacone, sebbene a differenza di quest'ultimo si sostenga che l'arte riesce ad imitare solo in parte la natura nell'opera di creazione della medicina, al fine di trasmutare i metalli in oro.[4][3]
Paolo è probabilmente il traduttore, se non l'autore,[2] anche del Liber de investigatione perfectionis, sempre attribuito tradizionalmente a Geber, in cui sono descritte formule e ricette da laboratorio, e di un Liber fornacibus, piccolo trattato con dodici illustrazioni di diversi tipi di forni o athanor.[7]
La mancanza quasi totale di fonti dirette su Paolo di Taranto si suppone sia dovuta al crescente clima di condanna delle pratiche alchemiche da parte degli ambienti ecclesiastici,[4] che ebbe inizio nel 1273 con un divieto «a tutti i frati di studiare, insegnare o praticare l'alchimia in qualsiasi modo», pronunciato da un capitolo generale dei domenicani, seguito nei decenni successivi da sanzioni come il carcere o la scomunica, comminate anche dall'ordine francescano.[3] Tali divieti rivelano tuttavia quanto fosse vivo tra le sue stesse fila l'interesse per questa disciplina, forse praticata persino da una sorta di «società segreta» di alchimisti francescani.[3]
La storicità di Paolo di Taranto è comunque confermata da alcuni documenti del 1325 di un certo Frate Dominicus del monastero benedettino di San Procolo a Bologna, conservati alla Biblioteca Comunale di Palermo, in cui si accenna anche alla sua origine meridionale.[4] Lo stesso Paolo mostra di possedere negli scritti a lui attribuiti un'esatta conoscenza del territorio di Taranto.[6][8]
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