Pinacoteca Tosio Martinengo | |
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La pinacoteca e la prospiciente piazza Moretto | |
Ubicazione | |
Stato | Italia |
Località | Brescia |
Indirizzo | Piazza Moretto 4 |
Coordinate | 45°32′04.32″N 10°13′33.01″E |
Caratteristiche | |
Tipo | Museo |
Istituzione | 1851 |
Proprietà | Comune di Brescia |
Gestione | Fondazione Brescia Musei |
Visitatori | 27 604 (2022) |
Sito web | |
Questa voce riguarda la zona di: |
Via Moretto |
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La Pinacoteca Tosio Martinengo è una galleria d'arte antica e moderna ospitata nello storico palazzo Martinengo da Barco e situata in piazza Moretto a Brescia, in pieno centro storico cittadino.
Il museo espone un considerevole patrimonio artistico, che spazia da opere gotiche e tardo gotiche del pieno Trecento e Quattrocento, sino alle opere dell'Ottocento e del Romanticismo di Francesco Hayez e Antonio Canova.[1] Il nucleo più considerevole dei dipinti esposti, tuttavia, è costituito dalla corrente artistica della pittura rinascimentale bresciana, rappresentata da maestri quali il Romanino, Il Moretto e Giovanni Gerolamo Savoldo. Degno di nota è anche la sezione dedicata alla pittura settecentesca di Giacomo Ceruti, conosciuto come il Pitocchetto, il pittore lombardo più importante del XVIII secolo.[1]
Nel 2018 si è concluso l'intervento di riqualificazione della pinacoteca, chiusa da diversi anni e rinnovata in tutti i suoi ambienti e nelle sue sale espositive.[1] Nel corso del 2022, tra l'altro, sono state effettuate nuove acquisizioni di opere d'arte riguardanti il Settecento lombardo, con nuovi dipinti e un nuovo allestimento delle opere di Giacomo Ceruti.[2][3]
La pinacoteca bresciana inoltre rientra, assieme alle altre istituzioni museali di Palazzo Tosio e del Museo del Risorgimento Leonessa d'Italia, nella rete dell'800 Lombardo.[4]
Il conte e collezionista Paolo Tosio decise di allestire in palazzo Tosio, dimora di sua proprietà progettata e ideata nel corso dell'Ottocento dall'architetto Rodolfo Vantini, una prima pinacoteca civica, che volle nel 1832 legare al comune di Brescia tramite lascito testamentario.[5][6][7]
Il palazzo dello stesso nobile bresciano era arrivato, nel corso degli anni, ad ospitare una ricca ed eterogenea collezione di opere d'arte, con dipinti della pittura cinquecentesca italiana appartenenti, tra gli altri, a Raffaello, al Moretto, al Lotto e al Savoldo. Ciononostante, erano comunque presenti svariati dipinti della scuola fiamminga e della pittura olandese del XVI e XVII secolo, oltre che della corrente neoclassica e romantica.[8] Questo considerevole patrimonio artistico, per volontà testamentaria dello stesso conte Tosio, fu donato all'autorità comunale «onde siano conservati perpetuamente in Brescia stessa a pubblico comodo».[9][10] Alla morte della moglie del conte, inoltre, si aggiunse a questo cospicuo lascito anche la stessa dimora nobiliare:[7]
«[...] perché abbia a lasciarvi in perpetuo gli oggetti d'arte disposti a favore della città medesima dall'ottimo mio marito e dove potrebbe a piacere collocarsi con tutto comodo quegli altri oggetti che la munificenza d'altri amatori della patria potesse lasciare ad aumento della collezione.»
Si venne dunque a creare, a seguito della trasformazione della galleria Tosio in bene pubblico, un primo esempio di pinacoteca civica, nonché la prima raccolta pubblica d'arte contemporanea in Italia.[11][N 1] Nel 1851 la stessa galleria fu aperta al pubblico, mantenendo tra l'altro l'originaria disposizione delle opere e degli arredi del palazzo. La collezione di opere esposte aumentò sensibilmente grazie al trasferimento di pale d'altare ed affreschi da chiese cittadine soppresse (tra le altre, la chiesa di San Domenico, la chiesa di San Barnaba, il santuario della Madonna delle Grazie e la chiesa di Santa Maria dei Miracoli) da palazzi e dimore signorili demolite oltre che da edifici municipali.[12]
Alcuni illustri cittadini bresciani, inoltre, tra i quali Camillo Brozzoni, Alessandro Sala, senza trascurare la stessa famiglia Calini, donarono un'ingente quantità di collezioni ed opere private.[6][8] Tra questi va citato anche il nome del collezionista Antonio Pitozzi che, nel 1844, chiese che i ventisei oggetti di pittura e scultura che aveva intenzione di donare «non abbiano a collocarsi nella galleria del benemerito fu C.te Tosio, ma bensì in separato, modesto locale, lusingandosi che con ciò possa avere origine la desiderata Civica Pinacoteca, della quale ancora difetta questa R. Città».[13]
Le aspirazioni espresse dal Pitozzi trovarono una concreta attuazione solo a seguito del lascito testamentario del conte Leopardo Martinengo.[13]
Infatti, nel 1884, il conte Leopardo Martinengo da Barco, senatore, patriota e dotto uomo di cultura, tramite lascito testamentario fece dono al comune dell'omonimo palazzo di sua proprietà, oltre che della propria biblioteca, delle proprie collezioni scientifiche e di opere d'arte:[7] tra le tante, si annoveravano nella sua collezione dipinti di Vincenzo Foppa, del Ferramola, di Paolo da Caylina il Giovane, del Savoldo e del Romanino, oltre che del Moretto e di Lattanzio Gambara; senza poi contare le innumerevoli medaglie pontificie, alcune di epoca classica ed una ricca raccolta di libri e manoscritti poi trasferita alla biblioteca queriniana.[6]
In un primo momento, dunque, si decise di trasferire in questa sede le collezioni di privati non pertinenti a quella originaria del conte Tosio: dopo che tra il 1889 e il 1898 furono effettuati lavori di adeguamento strutturale da Antonio Tagliaferri, fu infine inaugurata la Pinacoteca Comunale Martinengo.[8][13][14] Nell'occasione, fu anche creata di fronte ad essa l'odierna piazza Moretto, abbellita con l'erezione del monumento al Moretto ad opera di Domenico Ghidoni.[6][15]
Restituita alla galleria Tosio la sua integrità originaria, dunque, la stessa pinacoteca aperta negli spazi di palazzo Martinengo fu consacrata a tempio della scuola pittorica bresciana: la nuova collezione, infatti, aveva il suo cuore pulsante nel suo grande salone che, nella sua visione complessiva, portò lo storico dell'arte Gustavo Frizzoni a dire:
«le impressioni del visitatore non possono se non sentirsi profondamente mutate, ossia mosse da un senso d'inaspettata maraviglia, trovandosi egli trasportato da un tratto in mezzo agli elementi più splendidi dell'arte bresciana.»
Già a partire dal 1888, tuttavia, l'assessore del comune di Brescia Pertusati commissiona il trasporto di diverse opere dalla galleria Tosio alla pinacoteca Martinengo. Inoltre, nel 1893, la neonata pinacoteca Martinengo ebbe modo di ospitare altre collezioni private come quelle della galleria Faustini: è già nel settembre del medesimo anno, comunque, che il ministro della Pubblica Istruzione esorta le autorità comunali affinché fosse creata un'unica pinacoteca civica. Nel corso del 1900, nonostante l'opposizione dei conti Zuccheri, eredi del conte Tosio, sono molte le opere trasferite appunto da palazzo Tosio a quello Martinengo. L'11 luglio, a sancire definitivamente il trasferimento di sede nel palazzo di via Moretto, il comune vota all'unanimità la collocazione delle opere all'interno appunto di palazzo Martinengo. A favore di questa operazione museale si conta anche il parere favorevole di Adolfo Venturi e Corrado Ricci.[16] La creazione della nuova pinacoteca viene anche formalizzata tramite un accordo con gli eredi dei conti Tosio, oltre che con una delibera comunale del 12 marzo 1903: nasceva così la "Civica Pinacoteca Tosio-Martinengo".[17] Nel 1906 l'unione è formalizzata e nel 1908 la sede riapre al pubblico.[6][18]
Inoltre il pittore Giuseppe Ariassi, tra l'altro allievo di Francesco Hayez e maestro di Francesco Filippini, fu il presidente della pinacoteca Tosio Martinengo per oltre trent'anni; ebbe anche modo di dirigere personalmente la scuola di disegno ad essa annessa, oltre che essere il principale organizzatore, nel 1878, dell'«Esposizione della Pittura Bresciana» allestita nella rinascimentale crociera di San Luca.[13][19]
Nel frattempo la collezione si era arricchita di molte opere, frutto perlopiù di lasciti testamentari di privati o di famiglie, tra i quali si annovera, nel 1920, l'acquisizione di preziosi dipinti e stampe giapponesi dei Fè-d'Ostiani, portata in Italia dal conte Alessandro Fè d'Ostiani. Nel 1912, d'altro canto, gli studi del tedesco Oskar Fischel rivelarono la presenza, tra le collezioni della pinacoteca, dell'Angelo che un tempo fece parte della pala Baronci di Città di Castello, opera di Raffaello Sanzio. Senza aspettare conferme circa la paternità dell'opera, alcuni ignoti tentarono, nella notte tra il 30 aprile ed il 1º maggio, di rubare il dipinto.[6] Nel settembre dello stesso anno poi, grazie a studi più approfonditi da parte di Corrado Ricci e Luigi Cavenaghi, l'attribuzione fu certamente attribuita all'urbinate.[16]
Nel 1914, inoltre, grazie all'intervento di Giulio Zappa e del suo aiutante, Ettore Modigliani, fu cambiata la disposizione delle sale e del percorso espositivo,[20] da allora più logico e lineare nella sua interezza, dato che partiva dalle opere più antiche per arrivare a quelle più cronologicamente vicine:[21] furono anche esposti molti dipinti prima conservati nei magazzini, tra i quali lo stesso Angelo raffaellesco e un Cristo colla croce proveniente dalla chiesa di Santa Maria in Solario. Oltre a ciò, furono anche collocati nei saloni centrali le opere del Romanino e del Moretto. Furono anche murate le finestre ed aperti ampi e spaziosi lucernari, benché comunque l'operazione venne interrotta a causa dello scoppio della prima guerra mondiale: il 22 maggio 1915, infatti, la pinacoteca fu chiusa al pubblico e le opere più preziose trasferite a Roma.[6][20][22]
La pinacoteca venne riaperta già nel 1916 in occasione di un'esposizione sulla pittura del Rinascimento lombardo;[8] ciononostante, riaprì ufficialmente al pubblico soltanto nel 1920. Attorno al 1925 e fino al 1927, inoltre, Giorgio Nicodemi riorganizzò lo schema espositivo della pinacoteca.[20]
Nel 1939 fu istituita una commissione formata da studiosi dell'arte quali Fausto Lechi, Gaetano Panazza e Virgilio Vecchia affinché fossero riordinate le opere e la disposizione delle stesse, in occasione di una nuova mostra incentrata sulla pittura bresciana nel Rinascimento; tuttavia, a seguito dello scoppio della seconda guerra mondiale, il tutto si interruppe.[20] Molte opere infatti furono sfollate in diversi luoghi, nel corso del 1941: nella Villa Fenaroli di Seniga, in quella Lechi di Erbusco, nel abbazia di Rodengo-Saiano ed anche fuori provincia.
Il 15 ottobre 1946 la pinacoteca poté finalmente riaprire al pubblico e venne inaugurato, nel 1953, un nuovo riassetto dei dipinti fortemente voluto da Alessandro Scrinzi, allora direttore, oltre che da Giovanni Vezzoli e anche da Fausto Lechi.[6][23]
Chiusa già nel 1969, comunque, la pinacoteca venne chiusa al pubblico per lavori di restauro e riaperta subito dopo, nel 1970. In quell'occasione si rinnovarono gli impianti d'illuminazione e si pulirono gli stucchi, senza contare gli innumerevoli restauri di dipinti ed affreschi effettuati; anche nel 1990 venne intrapresa una vasta operazione di restauro che si concluse solo nel 1994.
La pinacoteca, nel frattempo, aveva avuto modo di arricchirsi di pregevoli opere, tra le quali, per esempio, il ritratto di giovane flautista del Savoldo, la cosiddetta Pietà del Foppa, oltre che il Ritratto di dama e i Dieci busti di profeti del Moretto e alcune delle tele che costituivano il nucleo dei ciclo di Padernello di Giacomo Ceruti.[6][23]
Chiusa infine dal 2009, il 17 marzo 2018 la pinacoteca è stata riaperta dopo un lungo restauro.[24][25][26] Nel corso del 2022, tra l'altro, una nuova serie di lasciti testamentari, donazioni e depositi ha portato al rinnovamento totale della sezione dedicata al Settecento, dedicata in particolare alla pittura della realtà di Giacomo Ceruti.[27]
La collezione ospita, tra le tante, innumerevoli opere dell'arte bresciana e lombarda databili dal Trecento al Settecento, disposte in un percorso espositivo di 21 sale; protagoniste della pinacoteca, tuttavia, sono le opere degli artisti del Rinascimento bergamasco e bresciano, tra le quali figurano opere di Raffaello, del Moretto e del Savoldo, oltre che del Foppa, del Romanino e del Lotto.[20][28]
Salendo al primo piano si incontra la prima sala del percorso, che offre un interessante spaccato di pittura Tardo gotica e Gotica, con opere del XIV secolo e XV secolo. Nelle vetrine qui presenti, inoltre, si possono ammirare avori, medaglie ed oggetti di oreficeria di Pisanello e Matteo de' Pasti.[29]
Nella seconda sala del percorso, spostandosi anche da un punto di vista prettamente cronologico, si incontrano alcune opere già del primo Cinquecento bresciano; nelle vetrine si possono ammirare oreficerie a tema sacro e piatti decorati con smalti.[29]
Il grande ambiente della terza sala ospita la collezione di opere del rinascimento bresciano, a suo tempo appartenente al conte Tosio; sono infatti presenti pitture a tema sacro di Andrea Previtali, di Francesco Francia e Andrea Solari.[31]
La seconda parte di queste opere rinascimentali, provenienti dalle collezioni del Tosio, culmina con il confronto tra le opere di artisti bresciani, perlopiù il Moretto, e le opere del Sanzio; si vuole dunque tenere fede alla tradizione secondo cui il Bonvicini sarebbe da ritenersi il "Raffaello bresciano".[32]
Dalla sala numero cinque in poi, sino all'ottava, l'attenzione del percorso si focalizza volutamente sui grandi maestri del rinascimento bresciano, accorpando appositamente opere tra loro simili per suscitare un confronto continuo tra le opere presenti.[32]
Il percorso prosegue interponendo alcune opere del Savoldo, del Lotto e sempre del Moretto; dunque il punto d'incontro di questi dipinti, e del loro confronto, risiede nell'utilizzo della luce e della resa atmosferica dei colori.[31][32]
La settima sala ospita ed espone i maggiori esempi di opere prodotte dai maestri bresciani del pieno Cinquecento: provenienti dai più disparati contesti cittadini, ora chiese, ora dimore signorili, ora proprietà di confraternite, l'elemento in comune è una innata resa realistica e vicina dunque al dato reale.[32]
Il grande salone dalle pareti rosse ospita le altrettanto grandi pale d'altare provenienti dalle chiese cittadine e del territorio bresciano; notevole è anche il leggio intarsiato di fra' Raffaele da Brescia, proveniente dall'abbazia di San Nicola di Rodengo-Saiano.[32][33][34]
La sala successiva è invece dedicata al Manierismo e a ceramiche e bronzetti decorativi di produzione italiana; sono anche presenti diversi paramenti murari recanti affreschi asportati da dimore private e palazzi.[32]
Nella sala successiva si incontrano alcuni ritratti di figure eminenti e di spicco del panorama lombardo, ad opera di altrettanti artisti provenienti dal medesimo contesto.[32][33]
La pinacoteca, inoltre, conserva parti di un taccuino smembrato che raccoglieva i disegni dell'artista risalenti al suo esordio del 1543.[35]
Nella sala numero 11 del percorso si arriva ad osservare la pittura dell XVII secolo, con un costante confronto tra la pittura di matrice classica (perlopiù di provenienza emiliana) e quella invece più "tenebrosa", considerando anche le diverse declinazioni geografiche della medesima.[32][33]
Il percorso della mostra prosegue con un'intera sala dedicata ed incentrata sulla produzione artistica di Giacomo Ceruti, meglio noto come il Pitocchetto; si inaugura così la pittura tipica del XVIII secolo, con i pezzi più pregiati dell'intera collezione.[32][36]
La sala seguente, detta "degli specchi", è interamente dedicata a preziosi vetri veneziani della collezione Brozzoni; una quarantina di esemplari testimoniano infatti l'evoluzione di tale arte tra la fine del Quattrocento e l'inizio del Settecento.[32][36]
Incentrate sul tema della pittura di genere e su figure allegoriche, espone opere di artisti non soltanto bresciani; i soggetti propendono comunque verso il paesaggio e scene di vita bucolica ed agreste, con la presenza preponderante di figure di contadini e pastori.[32][36] Nel 2022 sono state acquisite e qui collocate nuove opere di Giacomo Ceruti.[37]
Le sale seguenti sono un chiaro esempio di arte rococò, le cui movenze e decorazioni sono state conciliate con i colori degli stucchi e dei soffitti stessi; anche in questa sala, comunque, sono presenti ritratti di maestranze lombarde.[32]
Questo ambiente presenta un interessante pendant di Antonio Cifrondi, definito dallo storico dell'arte Roberto Longhi un "Pierrot lunaire",[38] chiarificando così lo stile del pittore.[32]
Nella sala successiva, allestita secondo il gusto delle dimore signorili settecentesche, si può osservare la singolare opera di Simon Troger: elogiata da Leopoldo Cicognara nella sua opera "tanto per il virtuosismo tecnico dell’esecutore quanto per la purezza preclassica delle figure".[32]
L'ultimo ambiente a tema settecentesco è appunto la sala numero 19, che esemplifica perfettamente l'arte promossa da Faustino Bocchi; con esso, anche una chiara espressione della cosiddetta "pittura a pigmei".[32][39]
Il percorso delle precedenti esposizioni, escludendo quelle di recente allestimento degli anni 2000, avrebbe terminato la mostra con queste ultime sale; tuttavia sono esposte in questo ambiente opere del primo Ottocento.[32]
Il percorso della mostra si conclude con alcune opere dei maggiori esponenti del Neoclassicismo e del Romanticismo italiano ed europeo. La preponderante componente classica di questa fase pittorica è interconnessa infine con quella della pala di Sant'Eufemia del Moretto, anch'essa emblematica per quanto riguarda l'influenza dell'arte classica.
La mostra, poi, si chiude idealmente con un'opera di Luigi Basiletti, un Ritratto del Conte Paolo Tosio.[32]
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