Tattiche della fanteria romana | |
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Un gruppo di legionari romani in formazione serrata, da una stele di Glanum. | |
Descrizione generale | |
Attiva | 753 a.C. - 476 |
Nazione | Roma Antica |
Tipo | fanteria |
Guarnigione/QG | accampamento romano |
Patrono | Marte dio della guerra |
Colori | Rosso |
Battaglie/guerre | si veda la voce Battaglie romane |
Decorazioni | Dona militaria |
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Per tattiche della fanteria romana si intendono non solo un'analisi storica della sua evoluzione, ma anche quali manovre la fanteria mise in atto, dall'inizio della sua fase regia, poi repubblicana ed imperiale, fino alla caduta dell'Impero romano d'Occidente. Ciò risulta tanto più interessante se confrontato con le diverse tipologie di nemico, che l'esercito romano incontrò nei diversi secoli della sua esistenza.
La tattica mutò notevolmente nei dodici secoli di storia romana, che qui sotto ci apprestiamo ad analizzare. Basta ricordare che Roma nell'VIII secolo a.C. era uno dei tanti e piccoli villaggi che popolavano il Latium vetus e sotto Augusto occupava ormai tutti i territori intorno al bacino del Mediterraneo. È evidente che la struttura militare del suo esercito e la conseguente tattica, mutarono insieme alle conquiste che via via ne ampliarono i territori inglobati, influenzata dalle tendenze politiche, sociali ed economiche di cui la città si arricchiva, ed ai popoli che a Roma "regalavano" di volta in volta le loro conoscenze belliche.
Roma fu molto abile nell'assorbire il meglio delle differenti tattiche, degli armamenti e dell'organizzazione militare, dei suoi nemici, con i quali si scontrò nei secoli (dall'VIII secolo a.C. al V secolo d.C.). Essa si adattò in modo estremamente flessibile e rapido, grazie al forte senso di disciplina che la società romana imponeva al proprio miles ed alla ferrea volontà di cercare di perseguire ad ogni costo la vittoria completa, a volte senza mediazioni o senza farsi grossi scrupoli.
Le tecniche di questo periodo erano molto simili a quelle di altri popoli italici, in particolare ai Latini, di cui Roma faceva parte, e non dovevano essere di sicuro migliori di quelle utilizzate nella vicina Magna Grecia. Al contrario, si trattava di un combattimento semplice ma violento, non particolarmente ordinato, tra poche centinaia di uomini dei vicini villaggi, che poteva durare anche pochi minuti, difficilmente alcune ore.[1] Vi era poi la consuetudine di lanciare un potente grido di guerra per intimorire l'avversario, prima dello scontro, come del resto in tutto il mondo antico.[2] A ciò si aggiunge il fatto che spesso, sempre per scoraggiare il nemico, venivano battute le aste o le spade contro gli scudi generando un grande fragore.[3]
Ora sulla base dei recenti ritrovamenti archeologici si è potuto notare che il primo esercito romano, quello di epoca romulea, era costituito da fanti che avevano preso il modo di combattere e l'armamento dalla civiltà villanoviana della vicina Etruria. I guerrieri combattevano prevalentemente a piedi con lance, giavellotti, spade (con lame normalmente in bronzo, ed in rari casi in ferro, della lunghezza variabile tra i 33 ed i 56 cm[4]), pugnali (con lame di lunghezza compresa tra i 25 ed i 41 cm[5]) ed asce, mentre solo i più ricchi potevano permettersi un'armatura composta da elmo e corazza, gli altri una piccola protezione rettangolare sul petto, davanti al cuore, delle dimensioni di circa 15 x 22 cm.[6] Gli scudi avevano dimensioni variabili (comprese tra i 50 ed i 97 cm[7]) e di forma prevalentemente rotonda (i cosiddetti clipeus, abbandonati secondo Tito Livio attorno alla fine del V secolo a.C.[8]) atti ad una miglior maneggevolezza.[4] Plutarco racconta, inoltre, che una volta uniti tra loro, Romani e Sabini, Romolo introdusse gli scudi di tipo sabino, abbandonando il precedente di tipo argivo e modificando le precedenti armature.[9]
Il combattimento, in verità, prevedeva, sulla base delle tradizioni omeriche, una serie di duelli tra i "campioni" dei rispettivi schieramenti, in genere tra i guerrieri più nobili, dotati di maggior coraggio e abilità (vedi ad esempio l'episodio tramandatoci degli Orazi e Curiazi[10]), equipaggiati con il miglior armamento. I patrizi ed i loro clienti più ricchi, combattevano in prima linea, i soli a potersi permettere armature, scudi, spade, elmi di qualità, oltre ad una cavalcatura (da cui smontavano, prima dello scontro). I più indigenti, non potendo permettersi a protezione del proprio corpo nessuna armatura completa (a volte solo una piastra di cuoio o bronzo, davanti al proprio petto), ma solo scudi in legno, venivano schierati nelle file più arretrate. I più poveri, dotati di sole armi da lancio, come giavellotti e fionde, o anche rudimentali scuri, erano invece utilizzati all'inizio dello scontro, per provocare e disturbare il nemico schierato con continui e fastidiosi lanci di proiettili da lontano, oppure all'inseguimento del nemico in fuga, dopo uno scontro vittorioso.[1]
L'esercito di Romolo, descritto da Tito Livio, potrebbe essere stato, quindi, un'anticipazione di quello di epoca successiva di Servio Tullio.[a 1] Secondo Livio, infatti, sarebbe stato Romolo a creare, sull'esempio della falange greca,[11] la legione romana, formata da 3.000 fanti e 300 cavalieri.[12][13][14] La legione si disponeva su tre file,[8] con la cavalleria ai lati. Ogni fila di 1.000 armati era comandata da un tribunus militum, mentre gli squadroni di cavalleria erano alle dipendenze dei tribuni celerum.[15]
Tito Livio racconta di una forma particolare di ordine di marcia dell'esercito romano in territorio nemico: si trattava del cosiddetto agmen quadratum, dove in testa ed in coda c'erano le due legioni consolari, ai lati le ali dei socii, al centro i bagagli di tutte le quattro unità menzionate (ovvero gli impedimenta delle legio I e II oltre a quelli delle due ali). Tale ordine di marcia fu utilizzato fin dall'inizio della Repubblica,[16] menzionato anche durante le guerre sannitiche,[17] la guerra annibalica,[18] la guerra giugurtina,[19] e la battaglia di Carre.[20]
Con l'occupazione di Roma da parte degli Etruschi e la successiva riforma di Servio Tullio, il nuovo esercito, di stampo quindi etrusco-greco, fu reclutato tra i cittadini romani secondo il loro ceto sociale: di conseguenza, composizione, equipaggiamento e aspetto delle singole file, potevano variare molto tra le cinque differenti "classi" sociali. Le formazioni armate comprendevano sia corpi di opliti (fanteria pesante), sia di truppe leggere (velites) e di cavalleria.
«[...] dai Tirreni [i Romani presero] l'arte di fare la guerra, facendo avanzare l'intero esercito in formazione di falange chiusa [...]»
Gli opliti della prima fila formavano un "muro di enormi scudi rotondi" parzialmente sovrapposti, in modo che il loro fianco destro venisse protetto dallo scudo del vicino commilitone. Sostenevano un addestramento costante ed il maggior peso del combattimento, che effettuavano in modo estremamente compatto, armati di lancia e spada, difesi da scudo, elmo e corazza (o comunque con una protezione pettorale).
«Quel giorno, tra la terza ed ottava ora, l'esito del combattimento era così incerto, che il grido di guerra lanciato al primo assalto, non fu più ripetuto, né le insegne avanzarono o ripiegarono, e neppure entrambe le parti indietreggiarono per prendere una nuova rincorsa.»
I comandanti romani erano spesso in prima linea, per dare dimostrazione del proprio coraggio ed impeto ai propri soldati, ai fini del buon esito della battaglia. Ciò portava, però ed inevitabilmente, ad una loro alta mortalità a causa dell'elevato rischio a cui erano esposti. Tito Livio racconta che lo stesso Tarquinio il Superbo, nel tentativo di riottenere il potere a Roma, mosse guerra contro il dittatore romano Aulo Postumio Albo Regillense, dopo essersi portato nelle prime fila del suo schieramento:
«Spronò con furia il suo cavallo contro Postumio, che stava incitando e dando ordini ai suoi nelle prime file e, ferito ad un fianco, fu salvato dai suoi soldati.»
L'obiettivo rimaneva quello di far cedere lo schieramento opposto, cercando di incunearsi dovunque l'avversario si trovasse in maggiori difficoltà, e spezzare così le file nemiche. La spinta avveniva anche grazie alla pressione delle formazioni più arretrate che si accalcavano, premendo con grande impeto e sospingendo la propria prima fila contro il "muro" umano nemico. Sembrava di assistere ad una gara di forza, dove dopo alcuni ondeggiamenti iniziali di due "muri umani" ormai a stretto contatto, una delle due parti subiva l'inevitabile sfondamento e successivo travolgimento, fino alla sconfitta finale. Da qui l'importanza che i comandanti delle retroguardie assumevano per dirigere la spinta da tergo.[21]
«Fermi ognuno al proprio posto, premendo con gli scudi, combattevano senza prendere il respiro e senza guardarsi indietro; [...] avevano come obiettivo l'estrema stanchezza o la notte.»
L'avanzamento del singolo combattente, dotato di maggior ardore combattivo o forza fisica, era ritenuto assai inutile nella ferrea disciplina romana, ma soprattutto pericoloso per lo schieramento falangitico, che poteva portare alla rottura dello schieramento in piena battaglia, con conseguenze disastrose. La fuoriuscita dalle linee del proprio schieramento, era pertanto considerata una colpa assai grave, non un atto eroico, e quindi punita anche con la morte.[21] Nel 340 a.C. il console Tito Manlio Torquato punì il proprio figlio con la decapitazione, per aver disobbedito agli ordini, spingendosi con grande furore combattivo oltre le file romane e mettendo a rischio l'integrità del proprio schieramento, come ci racconta Livio:
«Dal momento che tu, Tito Manlio, senza alcun riguardo per il comando dei due consoli e per l'autorità paterna, hai combattuto contro il nemico, contrariamente alla nostra disciplina, oltre le file dello schieramento e, per quanto è dipeso da te, hai allentato la disciplina militare, che fino ad oggi è stata alla base della potenza romana, [...], costituiremo un esempio doloroso, ma salutare per l'avvenire della gioventù romana.»
Considerato la loro esiguità numerica, si può pensare che combattessero affiancati da guerrieri con gli stessi compiti, ma con armamento e protezioni minori.[22] Lo scudo di grandi dimensioni dava la maggior protezione al corpo: poteva essere rotondo in bronzo con due maniglie (di tipo argivo) oppure rettangolare con bordi arrotondati e rinforzo verticale centrale (a modello celtico o italico). L'elmo di bronzo poteva avere o meno la cresta ed era inizialmente di tipo villanoviano, con la famosa cresta metallica, o di tipo Negau a morione; successivamente si usarono elmi a campana e, a seguito dei contatti con le città greche, di tipo calcidese (con paraguance e paranuca e le orecchie scoperte), corinzio (a copertura quasi totale, con paranaso ed una sola fessura centrale per gli occhi e parte della bocca) ed etrusco-corinzio (senza paranaso e con apertura leggermente più aperta. La protezione alle gambe era possibile dotandosi di schinieri di bronzo, e quindi era disponibile solo per gli opliti armati più pesantemente.
Le truppe leggere comprendevano fanti leggeri e tiratori e dovevano provocare il nemico, disturbarlo e disorganizzarlo prima dell'urto degli opliti. I fanti leggeri erano armati di giavellotti, difesi da uno scudo rotondo, indossavano un elmo ma non usavano corazza né piastre pettorali. I tiratori potevano essere arcieri o frombolieri e portavano al fianco una piccola spada, pugnale o coltello per la difesa personale, ma non avevano alcuna protezione. Vanno anche ricordati gli ascieri, che operavano insieme agli opliti con il compito di tagliare le lance della formazione avversaria: essi usavano inizialmente un'ascia ad una mano nel periodo villanoviano, per poi passare a quelle a due mani ad un taglio o bipenni. La loro protezione era affidata ad un elmo e a qualche forma di protezione pettorale, piastre o corazze.
La cavalleria si basava sulla mobilità e aveva compiti di avanguardia ed esplorazione, di scorta, nonché per azioni di disturbo o di inseguimento al termine della battaglia, o infine per spostarsi rapidamente sul campo di battaglia e prestare soccorso a reparti di fanteria in difficoltà.[23] I cavalieri usavano briglie e morsi, ma le staffe e la sella erano sconosciuti: non è quindi ipotizzabile una cavalleria "da urto". Quei cavalieri che, nelle stele funerarie appaiono armati di lancia e spada, protetti da un elmo, magari con scudo e piastra pettorale, erano molto probabilmente una sorta di fanteria oplitica mobile.
Un primo esempio di formazione "a testuggine" (testudo) utilizzato dalla fanteria romana, fu menzionato da Tito Livio nel corso dell'assedio di Veio e di quello di Roma degli inizi del IV secolo.[24] In questa situazione i soldati romani serravano le file e si avvicinavano tra loro, quasi fossero delle tegole di un tetto che ripara dalla "pioggia di dardi e frecce", sovrapponendo gli scudi, tenendoli di fronte a loro ed alzati sulle loro teste. Sembrava di vedere un carro armato vivente, che avanzava sotto i colpi degli arcieri nemici, limitando al minimo le perdite. Ovviamente la testuggine era una formazione lenta, che era spesso utilizzata negli assedi, per avvicinarsi alle mura avversarie, oppure in battaglia in campo aperto, quando si era circondati da ogni lato, come accadde nella campagna partica di Marco Antonio.[25][26]
Questo tipo di formazione era usato soprattutto in fase di assedio alle mura di una fortezza nemica.[26] Viene ricordata ancora da Livio durante le guerre sannitiche[27] o da Gaio Sallustio Crispo durante la guerra giugurtina.[28] E perché fosse efficace, necessitava di grande affiatamento di reparto, coordinazione nei movimenti ed esercitazioni specifiche.
Spesso però tale formazione fu impiegata in Oriente, di fronte alla terribile cavalleria dei catafratti partici o degli arcieri orientali, come accadde durante le campagne di Marco Antonio:[26]
«Descriverò ora la formazione a testuggine e come si forma. I bagagli, la fanteria leggera ed i cavalieri sono collocati al centro dello schieramento. Una parte della fanteria pesante, armata con gli scudi concavi semicircolari, si dispone a forma di quadrato (agmen quadratum) ai margini dello schieramento, con gli scudi rivolti verso l'esterno a protezione della massa. Gli altri che hanno gli scudi piatti, si raccolgono nel mezzo e stringendosi alzano gli scudi in aria a difesa di tutti. Per questo motivo, in tutto lo schieramento si vedono solo gli scudi e tutti sono al riparo dalle frecce nemiche, grazie alla compattezza della formazione. [...] I Romani ricorrono a questa formazione in due casi: quando si avvicinano ad una fortezza per conquistarla [...]; o quando, circondati da ogni parte da arcieri nemici, si mettono in ginocchio in contemporanea, compresi i cavalli che sono addestrati a mettersi sulle ginocchia o a sdraiarsi a terra. così fanno credere al nemico di essere sfiniti e quando i nemici si avvicinano, si alzano all'improvviso e li annientano.»
Appartengono a questo periodo i primi assedi subiti dalla città di Roma ad opera degli Etruschi di Porsenna e dei Galli di Brenno, da cui i Romani evidentemente appresero nuove tecniche per occupare le vicine città etrusche e latine. Risalirebbe, infatti, al 396 a.C. il primo importante assedio ad opera dei Romani tramandatoci dagli antichi scrittori latini: la caduta di Veio, dove si racconta che Camillo si diresse su Veio, fece costruire alcuni fortini ed una galleria che doveva arrivare fino alla rocca, passando sotto le mura nemiche. Gli scavatori furono divisi in sei squadre che si avvicendavano ogni sei ore. Dopo giorni e giorni in cui gli assalti romani erano stati sospesi, con sommo stupore degli etruschi, il re di Veio stava celebrando un sacrificio nel tempio di Giunone quando gli assaltatori romani, che avevano quasi terminato lo scavo e attendevano di abbattere l'ultimo diaframma, udirono il presagio dell'aruspice etrusco: la vittoria sarebbe andata a chi avesse tagliato le viscere di quella vittima. I soldati romani uscirono dal cunicolo, iniziarono l'attacco e prese le viscere le portarono al loro dittatore. Nello stesso tempo fu sferrato l'attacco generale di tutte le forze romane contro i difensori delle mura. Così, mentre tutti accorrevano sui bastioni,
«armatos repente edidit, et pars averso in muris invadunt hostes, pars claustra portarum revellunt, pars cum ex tectis saxa tegulaeque a mulieribus ac servitiis iacerentur, inferunt ignes. Clamor omnia variis terrentium ac paventium vocibus mixto mulierorum ac puerorum ploratu complet.»
«Gli armati sbucarono nel tempio di Giunone che sorgeva sulla rocca di Veio: una parte aggredì i nemici che si erano riversati sulle mura, una parte tolse il serrame alle porte, una parte diede fuoco alle case dai cui tetti donne e schiavi scagliavano sassi e tegole. Ovunque risuonarono le grida miste al pianto delle donne e dei fanciulli, di chi spargeva terrore e di chi il terrore subiva.»
In una pausa dei combattimenti Camillo ordinò, per mezzo di banditori, di risparmiare chi non portava armi. Il massacro si arrestò e si scatenò il saccheggio.
Roma, al principio del IV secolo a.C., aveva appena sperimentato un decisivo salto di qualità della sua storia, sia per l'importante acquisizione territoriale sia per l'esibizione di un'accresciuta disciplina e organizzazione militare, uscendo vittoriosa nel 396 a.C. dalle guerre con Veio.[29] La caduta di Veio aveva comportato un riequilibrio degli assetti politici delle altre capitali etrusche e delle loro tradizionali tensioni interne: l'ostilità verso Veio era malamente adombrata dalla neutralità manifestata dalle altre città della dodecapoli etrusca gravitante intorno al Fanum Voltumnae: in almeno un caso, questa ostilità era apertamente sfociata nell'aperta alleanza offerta a Roma da Caere (Cerveteri).[29] Un altro effetto fu l'accresciuta consapevolezza delle potenzialità, anche militari, della res publica.[29] A minare questo clima di fiducia e a mettere in allarme Roma fu una tribù particolarmente bellicosa:[30][31] i Senoni,[31] invasero la provincia etrusca di Siena dal nord e attaccarono la città di Clusium,[32] non molto distante dalla sfera d'influenza di Roma. Gli abitanti di Chiusi, sopraffatti dalla forza dei nemici, superiori in numero e per ferocia, chiesero aiuto a Roma, che rispose all'appello. Così, quasi senza volerlo,[30] i Romani non solo si ritrovarono in rotta di collisione con i Senoni, ma ne divennero il principale obiettivo.[33] I Romani li fronteggiarono in una battaglia campale presso il fiume Allia[30][31] variamente collocata tra il 390 e il 386 a.C. I Galli, guidati dal condottiero Brenno, sconfissero un'armata romana di circa 15.000 soldati[30] e incalzarono i fuggitivi fin dentro la stessa città, che fu costretta a subire una parziale occupazione e un umiliante sacco,[34][35] prima che gli occupanti fossero scacciati[31][34][36] o, secondo altre fonti, convinti ad andarsene dietro pagamento di un riscatto.[30][33]
In seguito a questi eventi i Romani potrebbero aver adottato un nuovo tipo di elmo (chiamato di Montefortino, dal nome di una necropoli vicino ad Ancona, che venne utilizzato fino al I secolo a.C. dall'esercito romano,[37]), uno scudo protetto da bordi in ferro[38] ed un giavellotto (pilum) tale, da conficcarsi e piegarsi negli scudi avversari, rendendoli inutilizzabili per il prosieguo della battaglia.[38] Plutarco racconta, infatti, che 13 anni dopo la battaglia del fiume Allia, in un successivo scontro con i Galli (databile al 377-374 a.C.), i Romani riuscirono a battere le armate celtiche, e ne fermarono una nuova invasione:[38]
«[...] Camillo portò i suoi soldati giù nella pianura e li schierò a battaglia in gran numero con grande fiducia, e come i barbari li videro, non più timidi o pochi in numero, come invece si aspettavano. Per cominciare, ciò mandò in frantumi la fiducia dei Galli, i quali credevano di essere loro ad attaccare per primi. Poi i velites attaccarono, costringendo i Galli ad entrare in azione, prima che avessero preso posizione con lo schieramento abituale, al contrario schierandosi per tribù, e quindi costretti a combattere a caso e nel disordine più totale. Quando infine Camillo condusse i suoi soldati all'attacco, il nemico sollevò le proprie spade in alto e si precipitò all'attacco. Ma i Romani lanciarono i giavellotti contro di loro, ricevendo i colpi [dei Galli] sulle parti dello scudo che erano protette dal ferro, che ora ricopriva gli spigoli, fatti di metallo dolce e temperato debolmente, tanto che le loro spade si piegarono in due; mentre i loro scudi furono perforati e appesantiti dai giavellotti [romani]. I Galli allora abbandonarono effettivamente le proprie armi e cercarono di strapparle al nemico, tentando di deviare i giavellotti afferrandoli con le mani. Ma i Romani, vedendoli così disarmati, misero subito mano alle spade, e ci fu una grande strage dei Galli che si trovavano in prima linea, mentre gli altri fuggirono ovunque nella pianura; le cime delle colline e dei luoghi più elevati erano stati occupati in precedenza da Camillo, e i Galli sapevano che il loro accampamento poteva essere facilmente preso, dal momento che, nella loro arroganza, avevano trascurato di fortificarlo. Questa battaglia, dicono, fu combattuta tredici anni dopo la presa di Roma, e produsse nei Romani una sensazione di fiducia verso i Galli. Essi avevano potentemente temuto questi barbari, che li avevano conquistati in un primo momento, più che altro credevano che ciò fosse accaduto in conseguenza di una straordinaria disgrazia, piuttosto che al valore dei loro conquistatori.»
Oltre 150 anni più tardi (nel 225 a.C.), ancora i Celti furono affrontati e vinti dai Romani. Questo il racconto di Polibio:
«I Celti si erano preparati proteggendo le loro retroguardie, da cui si aspettavano un attacco di Emilio, provenendo i Gesati dalle Alpi e dietro di loro gli Insubri; di fronte a loro in direzione opposta, pronti a respingere l'attacco delle legioni di Gaio, misero i Taurisci ed i Boi sulla riva destra del Po. I loro carri stazionavano all'estremità di una delle ali, mentre raccolsero il bottino su una delle colline circostanti con una forza tutta intorno a protezione. Questo ordine delle forze dei Celti, poste su due fronti, non solo si presentava con un aspetto formidabile, ma si adeguava alle esigenze della situazione. Gli Insubri ed i Boi indossavano dei pantaloni e dei lucenti mantelli, mentre i Gesati avevano evitato di indossare questi indumenti per orgoglio e fiducia in se stessi, tanto da rimanere nudi di fronte all'esercito [romano], con indosso nient'altro che le armi, pensando che così sarebbero risultati più efficienti, visto che il terreno era coperto di rovi che potevano impigliarsi nei loro vestiti e impedire l'uso delle loro armi. In un primo momento la battaglia fu limitata alla sola zona collinare, dove tutti gli eserciti si erano rivolti. Tanto grande era il numero di cavalieri da ogni parte che la lotta risultò confusa. In questa azione il console Caio cadde, combattendo con estremo coraggio, e la sua testa fu portata al capo dei Celti, ma la cavalleria romana, dopo una lotta senza sosta, alla fine prevalse sul nemico e riuscì a occupare la collina. Le fanterie [dei due schieramenti] erano ormai vicine, le une alle altre, e lo spettacolo appariva strano e meraviglioso, non solo a quelli effettivamente presenti alla battaglia, ma a tutti coloro che in seguito ebbero la rappresentazione dei fatti raccontati. In primo luogo, la battaglia si sviluppò fra tre eserciti. È evidente che l'aspetto dei movimenti delle forze schierate una contro l'altra, doveva apparire soprattutto strano e insolito. [...] i Celti, con il nemico che avanzava su di loro da entrambi i lati, erano in posizione assai pericolosa ma anche, al contrario, avevano uno schieramento più efficace, dal momento che nello stesso tempo essi combattevano sia contro i loro nemici, sia proteggevano entrambi nelle loro retrovie; vero anche che non avevano alcuna possibilità per una ritirata o qualsiasi altre prospettiva di fuga in caso di sconfitta, a causa della formazione su due fronti adottata. I Romani, tuttavia, erano stati da un lato incoraggiati, avendo stretto il nemico tra i due eserciti [consolari], ma dall'altra erano terrorizzati per la fine del loro comandante, oltreché dal terribile frastuono dei Celti, che avevano numerosi suonatori di corno e trombettieri, e contemporaneamente tutto l'esercito alzava alto il grido di guerra (barritus). C'era un tale rimbombo di suoni che sembrava che non solo le trombe ed i soldati, ma tutto il paese intorno alzasse le proprie grida. Molto terrificanti erano anche l'aspetto e i gesti dei guerrieri celti, nudi davanti ai Romani, tutti nel vigore fisico della vita, dove i loro capi apparivano riccamente ornati con torques e bracciali d'oro. La loro vista lasciò davvero sgomenti i Romani, ma al tempo stesso la prospettiva di ottenere questi oggetti come bottino, li rese due volte più forti nella lotta.»
E ancora Livio e Cesare, riferendosi ai Celti, raccontano che, durante la battaglia di Sentino del 295 a.C. e la conquista della Gallia del 58-50 a.C., essi conoscevano già la tecnica-tattica della testuggine, da cui forse i Romani l'avrebbero appresa:[39]
«[...] distava otto miglia una città dei Remi di nome Bibrax. I Belgi appena giunti, cominciarono ad assaltarla con grande impeto. Per quel giorno a stento si poté resistere. Questa è la tecnica d'assalto usata in modo similare da Galli e Belgi: una volta circondate tutte le mura, con un gran numero di armati da ogni parte, cominciano a tirare pietre sul muro ed il muro viene liberato dai difensori; fatta poi la testuggine, danno fuoco alle porte e scavano il muro. E ciò facilmente gli riusciva, poiché essendo così numerosi nel tirare pietre e proiettili, nessuno poteva rimanere sulle mura.»
È Polibio ad informarci dell'ordine di marcia "base" di un esercito romano consolare, formato quindi da due legioni romane e due di alleati (socii).[40] In testa alla "colonna" (agmen pilatum[41]) si trovava un'avanguardia di soldati scelti tra le truppe alleate (socii delecti), poi seguiva l'ala dextra sociorum, a seguire i bagagli alleati (impedimenta sociorum alae dextrae), la legio I consolare, i bagagli legionari (impedimenta legionis I), la legio II consolare, i bagagli legionari (impedimenta legionis II), a seguire i bagagli alleati (impedimenta sociorum alae sinistrae) e a chiudere l'ala sinistra sociorum.[40]
Quando vi era poi il timore di qualche attacco alla retroguardia, l'ordine rimaneva invariato ad eccezione dei soli alleati extraordinarii, i quali erano posti in coda alla colonna. Le due legioni e le due ali marciano, inoltre, alternativamente un giorno in testa e un giorno in coda alla colonna, in modo che tutti potessero, a turno, usufruire di acqua pura e campi di foraggio ancora integri.[42]
Sempre Polibio, poi Floro ed ancora Gaio Giulio Cesare, ci informano di un ordine di marcia particolare dell'esercito romano, databile per il primo alla guerra annibalica[43] e per il secondo alle guerre cimbriche,[44] per il terzo alla conquista della Gallia[45] e chiamato agmen tripartitum o acie triplici instituita. Questo ordine prevedeva tre differenti "colonne" o "linee", ciascuna costituita rispettivamente da manipoli di hastati (1º colonna, la più esposta ad eventuali attacchi nemici), principes (2º colonna) e triarii (3º colonna), intervallati con i rispettivi bagagli (impedimenta). In caso di necessità i bagagli sfilavano sul retro della terza colonna di triarii, mentre l'esercito romano si trovava già schierato in modo adeguato (triplex agmen).
«In un altro caso gli hastati, i principes e i triarii formano tre colonne parallele, i bagagli di ogni singolo manipolo davanti a loro, quelli dei secondi manipoli dietro i primi manipoli, quelli del terzo manipolo dietro il secondo, e così via, con i bagagli sempre intercalati tra i corpi di truppa. Con questo ordine di marcia, quando la colonna è minacciata, possono affrontare il nemico sia a sinistra sia a destra, e appare evidente che il bagaglio può essere protetto dal nemico da qualunque parte egli appaia. Così che molto rapidamente, e con un movimento della fanteria, si forma l'ordine di battaglia (tranne forse che gli hastati possono ruotare attorno agli altri), mentre animali, bagagli e loro accompagnatori, vengono a trovarsi alle spalle dalla linea di truppe e occupano la posizione ideale contro rischi di qualsiasi genere.»
Altra e fondamentale novità di questo periodo fu che il nuovo esercito, dovendo condurre campagne militari sempre più lontane dalla città di Roma, fu costretto a trovare delle soluzioni difensive adatte al pernottamento in territori spesso ostili. Ciò indusse i Romani a creare, sembra a partire dalle guerre pirriche, un primo esempio di accampamento militare da marcia fortificato, per proteggere le armate romane al suo interno.
«Pirro re dell'Epiro, istituì per primo l'utilizzo di raccogliere l'intero esercito all'interno di una stessa struttura difensiva. I Romani, quindi, che lo avevano sconfitto ai Campi Ausini nei pressi di Malevento, una volta occupato il suo campo militare ed osservata la sua struttura, arrivarono a tracciare con gradualità quel campo che oggi a noi è noto.»
Il primo castra romano da marcia o da campagne militare (castra aestiva[46][47]), ce lo descrive lo storico Polibio.[48]
Esso presentava una pianta rettangolare e una struttura interna adoperata anche nella pianificazione delle città: strade perpendicolari tra loro (chiamate cardo e decumano) che formavano un reticolato di quadrilateri.
Il vecchio schieramento falangitico presentava alcuni punti deboli, che con la nuova formazione manipolare i Romani cercarono di migliorare. La falange, infatti, richiedeva una notevole compattezza e terreni assai pianeggianti. Quando i Romani si trovarono, quindi, attorno alla metà del IV secolo a.C., a dover combattere contro i Sanniti nelle regioni montuose dell'Italia meridionale, furono costretti ad adottare non solo una nuova struttura (la legione fu divisa in 30 manipoli[49]) e nuove armi (come il pilum e lo scutum ovale[50]), ma anche una nuova tattica, certamente più elastica di quella adottata con la riforma di Servio Tullio.[51]
La vera novità della formazione manipolare era che, non solo si dava maggior autonomia ai 30 sub-reparti (manipuli), ma che i soldati non erano più inquadrati secondo il loro censo, al contrario in base alla loro età, esperienza e capacità di combattimento. Solo i velites, che erano i cittadini meno abbienti, continuavano a svolgere il ruolo originario di fanteria leggera,[52] davanti ai manipoli, ora formati da hastati-principes-triarii.[49][53]
Lo schieramento base di questo medio periodo repubblicano era il cosiddetto acies triplex, ovvero la disposizione degli uomini su tre linee distinte. La prima linea era composta dagli hastati, la seconda dai principes e la terza dai triarii. La fanteria al centro era sempre coperta ai fianchi da unità di cavalleria, un'avanguardia di tiratori o schermagliatori che davano inizio alla battaglia scagliando dardi o giavellotti sul nemico per poi ritirarsi al sicuro. La cavalleria si assicurava che i lati rimanessero difesi, e grazie al rapido movimento tentavano di aggirare il nemico, mentre la prima linea romana lo impegnava, per colpire alle spalle.
Gli eserciti, come abbiamo visto sopra, erano schierati in base al loro livello di preparazione (ed in parte al loro censo): davanti a tutti c'erano i velites, armati alla leggera, erano dotati di fionde, giavellotti e piccolo scudo, ed avevano il compito di distrarre, innervosire il nemico con costanti lanci di dardi, coprendo inoltre le manovre della fanteria pesante romana alle loro spalle. Dopo aver compiuto sufficienti azioni di disturbo, ed aver dato tempo ai soldati meglio equipaggiati di loro, si ritiravano dal campo di battaglia, sfilando alle spalle degli hastati, dei principes e dei triarii, ultimi della formazione, i veri veterani.
«Quando l'esercito aveva assunto questo schieramento, gli Hastati iniziavano primi fra tutti il combattimento. Se gli Hastati non erano in grado di battere il nemico, retrocedevano a passo lento e i Principes li accoglievano negli intervalli tra loro. [...] i Triarii si mettevano sotto i vessilli, con la gamba sinistra distesa e gli scudi appoggiati sulla spalla e le aste conficcate in terra, con la punta rivolta verso l'alto, quasi fossero una palizzata... Qualora anche i Principes avessero combattuto con scarso successo, si ritiravano dalla prima linea fino ai Triarii. Da qui l'espressione latino "Res ad Triarios rediit" ("essere ridotti ai Triarii"), quando si è in difficoltà.»
Appartengono a questo periodo i primi importanti assedi ad opera dei Romani. Nel 250 a.C. l'assedio di Lilibeo comportò per la prima volta l'attuazione di tutte le tecniche d'assedio apprese durante le guerre pirriche degli anni 280-275 a.C., tra cui torri d'assedio, arieti e vinea.[56] Vi è da aggiungere che un primo utilizzo di macchine da lancio da parte dell'esercito romano sembra sia stato introdotto dalla prima guerra punica, dove fu necessario affrontare i Cartaginesi in lunghi assedi di loro potenti città, difese da imponenti mura e dotate di una sofisticata artiglieria.[57]
Trentacinque anni più tardi, nel 214-212 a.C. i Romani dovettero affrontare uno dei più difficili assedi della loro storia: quello di Siracusa, ad opera del console Marco Claudio Marcello. I Romani, che avevano maturato un sufficiente bagaglio di esperienze negli assedi sia di mare che di terra, si scontrarono però con le tecniche innovative difensive adottate dal famoso matematico Archimede.[58] Si racconta infatti che, quando:
«i Siracusani, quando videro i Romani investire la città dai due fronti, di terra e di mare, rimasero storditi e ammutolirono di timore. Pensarono che nulla avrebbe potuto contrastare l'impeto di un attacco in forze di tali proporzioni.»
«I Romani, allestiti questi mezzi, pensavano di dare l'assalto alle torri, ma Archimede, avendo preparato macchine per lanciare dardi a ogni distanza, mirando agli assalitori con le baliste e con catapulte che colpivano più lontano e sicuro, ferì molti soldati e diffuse grave scompiglio e disordine in tutto l'esercito; quando poi le macchine lanciavano troppo lontano, ricorreva ad altre meno potenti che colpissero alla distanza richiesta. [...] Quando i Romani furono entro il tiro dei dardi, Archimede architettò un'altra macchina contro i soldati imbarcati sulle navi: dalla parte interna del muro fece aprire frequenti feritoie dell'altezza di un uomo, larghe circa un palmo dalla parte esterna: presso di queste fece disporre arcieri e scorpioncini e colpendoli attraverso le feritoie metteva fuori combattimento i soldati imbarcati. [...] Quando essi tentavano di sollevare le sambuche, ricorreva a macchine che aveva fatto preparare lungo il muro e che, di solito invisibili, al momento del bisogno si legavano minacciose al di sopra del muro e sporgevano per gran tratto con le corna fuori dai merli: queste potevano sollevare pietre del peso di dieci talenti e anche blocchi di piombo. Quando le sambuche si avvicinavano, facevano girare con una corda nella direzione richiesta l'estremità della macchina e mediante una molla scagliavano una pietra: ne seguiva che non soltanto la sambuca veniva infranta ma pure la nave che la trasportava e i marinai correvano estremo pericolo.»
Altri e memorabili assedi del periodo furono quello degli anni 212-211 a.C., nel corso della seconda guerra punica, quando Annibale, se riuscì una prima volta a rompere l'assedio alla città di Capua (nel 212 a.C.), la seconda volta i Romani mantennero saldo le loro posizioni in Campania. E seppure Annibale avesse minacciato di assediare la stessa Roma:
«I Romani che erano assediati da Annibale e a loro volta assediavano Capua, disposero con decreto che l'esercito mantenesse quella posizione, fin quando la città non fosse stata espugnata.»
Nel 209 a.C., nel mezzo della seconda guerra punica, Publio Cornelio Scipione riuscì ad espugnare la città ibero-cartaginese di Cartagena (poi ribattezzata Nova Carthago), dove al suo interno fu trovato un arsenale di macchine da lancio pari a 120 catapulte grandi, 281 piccole, 23 baliste grandi e 52 piccole, oltre ad un notevole numero di scorpioni.[59]
Ultimi e sempre più "raffinati" assedi messi in atto dai romani nel periodo in questione, furono quello del 146 a.C., durante la terza guerra punica, a Cartagine, dove Appiano di Alessandria ci racconta che i Romani di Publio Cornelio Scipione Emiliano, catturarono più di 2.000 macchine da lancio (tra catapulte, baliste e scorpioni) nella sola capitale cartaginese.[60] Ed infine quello degli anni 134-133 a.C., di Numanzia, quando il console Publio Cornelio Scipione Emiliano, eroe della terza guerra punica, dopo aver saccheggiato il paese dei Vaccei, cinse d'assedio la città. L'armata comandata da Scipione era integrata da un nutrito contingente di cavalleria numidica, fornita dall'alleato Micipsa, al cui comando si trovava il giovane nipote del re, Giugurta. Per prima cosa, Scipione si adoperò per rincuorare e riorganizzare l'esercito scoraggiato dall'ostinata ed efficace resistenza della città ribelle; poi, nella certezza che la cittadella poteva essere presa solo per fame, fece costruire una circonvallazione (un muro di 10 chilometri tutto intorno) atta a isolare Numanzia e a privarla di qualsiasi aiuto esterno. Il console si adoperò poi a scoraggiare gli Iberi dal portare aiuto alla città ribelle, presentandosi con l'esercito alle porte della città di Lutia e obbligandola alla sottomissione e alla consegna di ostaggi. Dopo quasi un anno di assedio, i Numantini, ormai ridotti alla fame, cercarono un abboccamento con Scipione, ma, saputo che questi non avrebbe accettato altro che una resa incondizionata, i pochi uomini in condizione di combattere preferirono gettarsi in un ultimo, disperato assalto contro le fortificazioni romane. Il fallimento della sortita spinse i superstiti, secondo la leggenda, a bruciare la città e a gettarsi fra le fiamme. I resti dell'oppidum furono rasi al suolo come Cartagine pochi anni prima.
È certo che ai tempi della terza guerra sannitica, se non prima, i Sanniti avevano pienamente sviluppato e organizzato i loro eserciti tribali, che non dovevano essere molto diversi dall'esercito romano, tanto che Livio non esitava a parlare di “legioni” sannite. Un esercito sannita era organizzato in coorti – secondo Livio composte da 400 uomini – e combatteva in manipoli. La cavalleria sannita, inoltre, godeva di ottima fama.
I successi iniziali dei Sanniti contro i Romani sul terreno montuoso, confermano come essi usassero un ordine di battaglia flessibile e aperto, piuttosto che schierare una falange serrata. Una tradizione, sostenuta dal frammento in greco detto Ineditum Vaticanum e da Diodoro Siculo,[61] vuole che i Sanniti usassero sia il giavellotto (pilum), sia un lungo scudo ellittico, diviso verticalmente in due da una nervatura con una borchia al centro (lo scutum), e che i Romani appresero da essi l'uso di tali armi, oltre alla tattica manipolare ed un miglior utilizzo della cavalleria. L'impressione generale che si ricava dell'esercito sannita è quella di uomini non appesantiti da troppe armature difensive e ben equipaggiati per un'azione flessibile.
«[...] lo scudo sannitico oblungo (scutum) non faceva parte del nostro equipaggiamento nazionale [romano], né avevamo ancora i giavellotti (pilum), ma si combatteva con scudi rotondi e lance. [...] Ma quando ci siamo trovati in guerra con i Sanniti, ci siamo armati come loro con gli scudi oblunghi e i giavellotti e copiando le armi nemiche siamo diventati padroni di tutti quelli che avevano una così alta opinione di se stessi.»
Il re Pirro utilizzava uno schieramento ellenico di tipo falangitico, assai difficile da affrontare per i Romani (inizi III secolo a.C.). Nonostante le iniziali sconfitte subite dalla Repubblica romana, il re epirota subì anch'egli perdite considerevoli nel corso dei cinque anni di guerra (dal 280 al 275 a.C.), tanto da indurre i contemporanei a sottolineare a quale terribile costo fossero state ottenute dal sovrano ellenico, con il famoso detto dispregiativo di "vittoria di Pirro". Un comandante abile ed esperto come Pirro, schierava la sua falange attraverso un sistema misto, comprendente unità miste di elefanti da guerra, oltre a formazioni di fanteria leggera (peltasti), unità di élite e la cavalleria, tutte a sostegno del corpo principale di fanteria. L'utilizzo di tutte queste componenti permise ai Greci della Magna Grecia di sconfiggere i Romani in due circostanze, mentre nella terza battaglia si ebbe un parziale successo di questi ultimi, i quali impararono dai loro stessi errori, facendone tesoro per le battaglie successive e riuscendo definitivamente a battere le falange ellenica un secolo più tardi (nel 168 a.C.).[62]
A partire dalla guerra annibalica, in seguito alla cocente sconfitta di Canne, subita dalle armate romane nel 216 a.C., ci si rese conto che, l'esercito romano non poteva più basarsi sulla sola fanteria pesante posizionata al centro dello schieramento, era necessario rafforzare i reparti di cavalleria alle sue ali, per evitare di essere circondati dal nemico ai lati e subire una sconfitta tanto devastante.[63]
La riflessione maturò dopo questa grave sconfitta, nella quale Annibale era riuscito ad annientare un esercito romano tre volte superiore, usando in modo impeccabile la sua cavalleria. Durante la battaglia il centro cartaginese, che aveva assorbito la carica romana indietreggiando, aveva consentito che i suoi lati si allungassero. I Romani, avanzando centralmente, avevano creduto di poter sfondare facilmente la formazione avversaria. Frattanto la cavalleria punica, nettamente superiore in numero e per qualità tattiche quella romana, la annientava. E mentre la fanteria romana si incuneava pericolosamente al centro dello schieramento cartaginese, la cavalleria punica circondava la fanteria romana e la caricava da dietro. 80.000 soldati romani persero così la vita nello scontro. Si trattava della peggior sconfitta dell'intera storia romana.
Nella battaglia di Zama, Publio Cornelio Scipione si trovò, per la prima volta dall'inizio della guerra annibalica, in netta superiorità numerica come forza di cavalleria, 4.000 dei quali forniti dall'alleato numida, Massinissa.[64] La battaglia ebbe inizio con una carica da parte dei Cartaginesi di ben 80 elefanti da guerra, lo scopo era quello di sfondare al centro, lo schieramento romano. Per ovviare a ciò, Scipione pose i triarii come riserva tattica, nelle retrovie, pronti ad un utilizzo in qualunque zona del campo di battaglia. Lasciò invece, i velites schierati, per evitare che Annibale si accorgesse che principes ed hastati erano disposti "in colonna", in modo da lasciare tra i vari manipoli dei corridoi, nei quali si sarebbe sfogata la carica degli elefanti, limitando al minimo i danni. Esaurito l'impeto della prima carica cartaginese, i legionari si trovavano a fronteggiare i veterani di Annibale, schierati dietro le prime file. Scipione diede così l'ordine di serrare i ranghi, e di predisporsi a sopportare l'urto della fanteria pesante cartaginese, mentre la cavalleria romana-numidica procedeva a sconfiggere le ali avversarie. Questa prima disposizione tattica, simile a quella successiva per coorti, mise in atto una tattica sempre più flessibile, pronta ad adeguarsi alle circostanze e contribuendo alla vittoria sul campo del "miglior" nemico di Roma, Annibale.
E seppure la cavalleria non risultò mai l'arma principale nello schieramento romano, crebbe di importanza nella tattica utilizzata durante le successive battaglie, visto l'esito vittorioso di Zama. I cavalieri romani, spesso ausiliari alleati, reclutati presso le popolazioni locali, nelle singole campagne militari, si rivelarono di fondamentale importanza ad esempio nel corso della conquista della Gallia di Cesare. Si racconta che durante l'assedio di Alesia, quando sembrò che le sorti della battaglia fossero ormai decise, in un pareggio tra le parti, Cesare, a sorpresa, inviò lungo un fianco dello schieramento gallico la cavalleria germanica, la quale riuscì non solo a respingere il nemico, ma a far strage degli arcieri che si erano mischiati alla cavalleria, inseguendone le retroguardie fino al campo dei Galli. L'esercito di Vercingetorige che si era precipitato fuori dalle mura di Alesia, rattristato per l'accaduto fu costretto a tornare all'interno della città, quasi senza colpo ferire.[65]
I Romani ebbero la meglio contro la falange macedone in due differenti scontri: a Cinocefale nel 197 a.C. ed a Pidna nel 168 a.C. Nel primo scontro i Romani ottennero la vittoria grazie a migliori e più qualificate forze di cavalleria (forti dell'esperienza della precedente guerra annibalica), le quali prima sconfissero la cavalleria nemica e poi aggredirono i fianchi ed il retro della falange nemica.
Nel secondo e decisivo scontro, quello di Pidna, i Macedoni, avendo compreso quali fossero stati i loro errori tattici nella precedente battaglia, raccolsero anch'essi un ingente corpo di cavalleria, pari in numero a quella romana (circa 4.000 armati) e fortificarono così i loro fianchi. Il fatto poi che i due schieramenti si affrontassero, almeno inizialmente, su un terreno relativamente pianeggiante, fece sì che la falange macedone, forte di 21.000 fanti pesanti, riuscì in un primo momento a respingere con successo l'attacco delle legioni romane, tanto da costringerle ad indietreggiare. Ciò portò, però, ad un vantaggio per i Romani, in quanto il terreno sul quale erano indietreggiati, era sconnesso ed inadatto alla formazione falangitica, che richiedeva la massima compattezza. I Macedoni, avanzando, si trovarono a perdere la loro necessaria coesione. I Romani, superato lo smarrimento iniziale, ora che il combattimento si era spostato su un terreno assai a loro più favorevole, ottennero la vittoria finale grazie alla maggiore mobilità delle legioni manipolari rispetto alla "rigidezza" della falange macedone, e grazie ad armi più adeguate (come lo scudo oblungo e la spada corta,[66] importata dalla Spagna) al combattimento ravvicinato del "corpo a corpo". E così i Romani, dopo aver neutralizzato la lunga picca macedone, ebbero la meglio sulle inesistenti armi supplementari macedoni (un'armatura assai leggera ed un pugnale). Sembra, inoltre, che il comandante macedone, Perseo, vista la tragica situazione in cui versavano le sue truppe, fuggì senza provare a condurre la cavalleria alla carica, per proteggere la ritirata della sua fanteria ormai in difficoltà. La battaglia si racconta, si risolse in meno di due ore, con una sconfitta completa delle forze macedoni.
In seguito alle invasioni dei Cimbri e dei Teutoni, dove le armate romane avevano subito numerose sconfitte, anche a causa della nuova tattica adottata dalle popolazioni germaniche del cuneus. Si trattava di una formazione molto compatta e profonda che mirava a devastare il centro dello schieramento avversario. Per questo motivo, Gaio Mario, intuì che c'era la necessità di cambiare la tattica tradizionale per poter finalmente contrastare il nemico germanico, tattica che si era rivelata già disastrosa ai tempi della guerra annibalica. Egli adottò così uno schieramento più compatto (che potesse fronteggiare il devastante impatto del cuneus germanico), ma allo stesso tempo più flessibile, in modo tale da poter agire autonomamente all'interno dello schieramento legionario, e potendo così aggirare i fianchi del nemico (unico punto debole) e metterlo in gravi difficoltà.[67]
La nuova organizzazione dell'esercito romano subiva, pertanto, un cambiamento di fondamentale importanza: il manipolo (formato da sole due centurie) perse ogni funzione tattica in battaglia (non invece quella amministrativa[68]) e fu sostituito, come unità di base della legione,[67] da 10 coorti (sull'esempio di ciò che era già stato anticipato da Scipione l'Africano un secolo prima), ora numerate da I a X.[69] Furono, come si è accennato prima, eliminate le divisioni precedenti tra Hastati, Principes e Triarii, ora tutti equipaggiati con il pilum (arma da lancio, che sostituiva l'hasta, che fino ad allora era in dotazione ai Triarii).[69]
Gaio Giulio Cesare ci racconta l'ordine di marcia delle legioni e delle truppe ausiliarie di fanteria e cavalleria in prossimità del nemico durante la conquista della Gallia, databile al 57 a.C., come segue:
«Cesare mandata avanti la cavalleria, seguiva subito dopo con il resto delle truppe: ma il criterio e l'ordine di marcia era diverso da quello che i Belgi avevano annunciato ai Nervi. Infatti poiché si avvicinava al nemico, Cesare conduceva sei legioni senza bagagli, secondo la sua consuetudine. Dopo queste aveva collocato i bagagli di tutto l'esercito. Poi c'erano le due legioni da poco arruolate, che chiudevano l'intera colonna e costituivano il presidio ai bagagli.»
Le nuove unità militari di base delle legioni, le coorti, venivano schierate normalmente su due linee (duplex acies), soluzione che permetteva di avere un fronte sufficientemente lungo ma anche profondo e flessibile.[70] Vi erano poi altri tipi di schieramenti praticati dalle armate romane del tardo periodo repubblicano: su una sola linea, ovviamente quando era necessario coprire un fronte molto lungo come nel caso del Bellum Africum durante la guerra civile tra Cesare e Pompeo;[71] o su tre linee (triplex acies), formazione spesso utilizzata da Cesare durante la conquista della Gallia, con la prima linea formata da 4 coorti, e le restanti due, formate da tre coorti ciascuna. Le coorti schierate lungo la terza linea costituivano spesso una "riserva tattica" da utilizzare in battaglia, come avvenne contro Ariovisto in Alsazia.[72] E sempre Cesare ci parla di un ordine coortale su quattro linee a battaglia di Farsalo a protezione della cavalleria di Pompeo.[73] Tale schieramento risultava così molto più compatto e "profondo" da sfondare, rispetto al precedente ordinamento manipolare (vedi sopra).
Questo genere di tattica sembra sia stata adottata inizialmente dai Germani,[74] da cui i Romani ne appresero la disposizione (dai tempi di Gaio Mario e Gaio Giulio Cesare[75]) e potrebbero averla perfezionata nei secoli successivi, sia durante l'occupazione romana della Germania sotto Augusto, sia durante le guerre marcomanniche di Marco Aurelio, come riferiscono alcuni autori latini: da Aulo Gellio, scrittore del II secolo,[76] ad Ammiano Marcellino e Flavio Vegezio Renato, scrittori del IV secolo.[77] Sembra che i legionari si disponessero a cuneo in una formazione d'attacco compatta, larga alla base e molto stretta al vertice, ovvero formavano un triangolo (detta anche "testa di porco", caput porcinum), ponendo al vertice avanzato il proprio centurione. La funzione principale di questa formazione era dividere lo schieramento avversario in due differenti tronconi, in modo da renderlo maggiormente vulnerabile. Del resto i Romani, fin dai primordi, erano soliti tentare di sfondare il centro della formazione nemica, indebolendolo con continue cariche da parte della fanteria pesante: una volta sfondato il fronte nemico, si procedeva a circondarlo, grazie anche dell'ausilio della cavalleria, che premeva i lati impedendone la fuga. Un utilizzo di questo tipo si ricorda nel IV secolo, quando Costantino I la adottò contro le truppe di Massenzio nella battaglia di Torino del 312.[78]
Un altro tipo di tattica adottato in questo periodo sembra sia stato quello "a circolo" (orbis), come descritto da Cesare durante la conquista della Gallia, che sembra sia stato praticato però da piccole formazioni (in antitesi alla formazione agmen quadratum di diverse legioni-truppe alleate).
«[Di ritorno dalla Britannia] da queste navi sbarcarono circa 300 soldati e si diressero verso il campo. I Morini, che Cesare partendo per la Britannia, aveva lasciato pacificati, attratti dalla speranza di bottino, li circondarono [...]. E poiché i nostri si disposero "in cerchio" per difendersi, rapidamente si radunarono al grido di combattimento 6.000 Morini. A questa notizia, Cesare inviò in aiuto tutta la cavalleria che aveva a disposizione. Frattanto i nostri soldati sostennero l'impeto dei [6.000] Galli e combatterono con grande valore per più di 4 ore, ricevendo poche ferite ed uccidendo molti nemici.»
Altro episodio dove Cesare racconta la formazione "in cerchio", che però si rivelò poco adatta, riguarda il quinto anno di campagna militare in Gallia, quando le truppe in marcia di Quinto Titurio Sabino e Lucio Aurunculeio Cotta furono attaccate a sorpresa e massacrate da quelle galliche di Ambiorige. Sabino e Cotta furono uccisi, e solo pochi soldati riuscirono a raggiungere le truppe comandate da un altro legato di Cesare, Tito Labieno.[79]
«[...] Dal momento che, a causa della lunghezza della colonna di marcia, i legati Sabino e Cotta non potevano provvedere a tutto personalmente e decidere cosa si doveva fare in ogni punto della colonna, comandarono che si abbandonassero i bagagli e ci si disponesse "in cerchio". Questa decisione sebbene in casi come questo non sarebbe riprovevole, ebbe tuttavia delle conseguenze negative: diminuì infatti la fiducia dei nostri soldati e rese più spietati i nemici nel combattimento, poiché un tale ordine sembrava fosse stato preso per paura e disperazione.»
I comandanti romani erano spesso in prima linea, per dare dimostrazione del proprio coraggio ed impeto ai propri soldati, ai fini del buon esito della battaglia. Ciò portava, però ed inevitabilmente, ad una loro alta mortalità a causa dell'elevato rischio a cui erano esposti. Altri ebbero il coraggio, pari alla fortuna di non aver mai subito ferite mortali, come Lucio Cornelio Silla Felix (ovvero il fortunato) e lo stesso Gaio Giulio Cesare, come dimostrano alcuni brani tratti qui sotto dal De bello Gallico:
«[Cesare] riunite le insegne della XII legione, i soldati accalcati erano d'impaccio a se stessi nel combattere, tutti i centurioni della quarta coorte erano stati uccisi ed il signifer era morto anch'egli, dopo aver perduto l'insegna, quasi tutti gli altri centurioni delle altre coorti erano o feriti o morti [...] mentre i nemici, pur risalendo da posizione da una posizione inferiore, non si fermavano e da entrambi i lati incalzavano i Romani [...] Cesare vide che la situazione era critica [...] tolto lo scudo ad un soldato delle ultime file [...] avanzò in prima fila e chiamati per nome i centurioni, esortati gli altri soldati, ordinò di avanzare con le insegne allargando i manipoli, affinché potessero usare le spade. Con l'arrivo di Cesare ritornata la speranza nei soldati e ripresi d'animo [...] desiderarono, davanti al proprio generale, di fare il proprio dovere con professionalità, e l'attacco nemico fu in parte respinto.»
Lo svolgimento della battaglia vide poco dopo i Romani prendere il sopravvento, e sebbene i Nervi combattessero con coraggio e ostinazione, furono completamente massacrati. Cesare narra che al termine della battaglia dei 60.000 Nervi, ne rimasero in vita solo 500.[80]
Nel capolavoro tattico che vide Cesare impegnato ad Alesia, nel mezzo dello scontro finale, dove i Galli premevano contro le fortificazioni sia interne che esterne, ed i Romani erano ormai prossimi al tracollo definitivo, il proconsole romano, venuto a conoscenza che malgrado avesse inviato numerose coorti in soccorso la situazione al campo settentrionale continuava ad essere assai grave, decise di recarsi personalmente con nuovi reparti legionari raccolti durante il percorso di avvicinamento. Qui non solo riuscì a ristabilire la situazione a favore dei Romani, ma con mossa inaspettata e repentina ordinò a quattro coorti e a parte della cavalleria di seguirlo: aveva in mente di aggirare le fortificazioni ed attaccare il nemico alle spalle. Frattanto Labieno, radunate dai vicini fortilizi in tutto trentanove coorti, si apprestò a muovere anch'egli contro il nemico.[81]
«Riconosciuto Cesare per il colore del suo mantello, che portava come un'insegna durante i combattimenti... i Romani, lasciati i pilum, combattono con la spada. Velocemente appare alle spalle dei Galli la cavalleria romana, mentre altre coorti si avvicinano. I Galli volgono in fuga. La cavalleria romana rincorre i fuggiaschi e ne fa grande strage. Viene ucciso Sedullo, comandante dei Lemovici; l'arverno Vercassivellauno viene catturato durante la fuga; vengono portate a Cesare settantaquattro insegne militari. Di così grande moltitudine pochi riuscirono a raggiungere il campo e salvarsi... Dalla città, avendo visto la strage e la fuga dei compagni e disperando della salvezza, ritirano l'esercito in Alesia. Giunta questa notizia, i Galli del campo esterno si danno alla fuga... Se i legionari non fossero stati sfiniti... tutte le truppe nemiche avrebbero potuto essere distrutte. Verso mezzanotte la cavalleria, mandata all'inseguimento, raggiunse la retroguardia nemica. Un grande numero di Galli fu preso ed ucciso, gli altri si disperdono in fuga verso i loro villaggi.»
Cesare aveva vinto nuovamente. Questa volta aveva, però, sconfitto l'intera coalizione della Gallia. La sua era stata una vittoria totale contro l'impero dei Celti. Vi è da aggiungere, però, che non era solo al comandante che spettava questo duro compito di apparire spesso nelle prime linee. Tale ruolo era, almeno dai tempi delle guerre puniche, assunto dai centurioni, posizionati sulla destra dello schieramento manipolare e poi coortale.[82] Posizione certamente assai rischiosa. Non a caso spesso al termine di aspri scontri, numerosi erano i centurioni caduti al termine della battaglia.[83] Cesare racconta ad esempio che durante l'assedio di Gergovia:
«Lucio Fabio, un centurione dell'VIII legione, che, com'era noto ai suoi soldati, aveva detto quel giorno che era attratto dalle ricompense promesse ad Avarico, e che non avrebbe permesso a nessuno di salire sulle mura [dell'oppidum gallico] prima di lui, trovò tre soldati del suo manipolo, che lo sollevarono al punto che poté salire sul muro. Egli poi afferrandoli, uno ad uno, li tirò sulle mura [con sé].»
«In quello stesso momento, il centurione Lucio Fabio, e quelli che con lui erano saliti sulle mura della città, furono circondati, uccisi e gettati sotto dalle mura.»
Sappiamo da numerose fonti che in alcuni casi i comandanti romani utilizzavano parte del loro esercito quale "riserva tattica", da poter utilizzare poi nel corso della battaglia. Sembra infatti che si debba ascrivere a Lucio Cornelio Silla questa importante innovazione tattica utilizzata poi nei secoli successivi. L'unità in questione, utilizzabile in caso di estrema necessità, fu creata per la prima volta nel corso della battaglia di Cheronea dell'86 a.C. Lo storico Giovanni Brizzi ricorda, infatti, che l'ala sinistra dello schieramento romano, comandato da Lucio Licinio Murena, fu salvato grazie all'intervento di questa "riserva" tattica comandata dai legati Quinto Ortensio Ortalo e Galba.[84][85][86]
Un altro esempio lo apprendiamo da Cesare nel corso della conquista della Gallia, contro i Germani di Ariovisto in Alsazia[72] o a Bibracte contro gli Elvezi nel 58 a.C.:
«Cesare schierò a metà del colle le quattro legioni di veterani [la VII, VIII, IX e X)] in tre file[87] mentre ordinò di collocare sulla cima le due legioni appena arruolate [la XI e XII] ... insieme alle truppe ausiliarie [...] oltre a radunare i bagagli in un sol luogo, e che questo luogo fosse fortificato dai soldati schierati nella parte più alta della collina. Gli Elvezi che avevano seguito i romani con tutti i loro carri, radunarono in un sol luogo i bagagli, poi in file serrate, rigettata la cavalleria romana, si fecero sotto alla prima schiera dopo aver formato una falange.»
o anche in quella successiva del 57 a.C. nei pressi del fiume Axona:
«Cesare lasciate nel campo due legioni che aveva da poco arruolate, affinché, se in qualche parte dello schieramento vi fosse stato bisogno, potessero essere impiegate come riserva, schierò in ordine davanti al campo le altre sei legioni.»
Senza dimenticare forse la più importante battaglia di Cesare, quella di Farsalo contro il rivale Pompeo, per la supremazia sulla stessa Roma.[88]
Cesare racconta le modalità di combattimento, durante la battaglia in Alsazia contro i Germani di Ariovisto:
«Con tale violenza i Romani andarono all'assalto dei Germani, ma altrettanto improvvisamente e rapidamente i Germani corsero all'attacco, che non vi fu spazio [da parte dei Romani] di lanciare i pila contro il nemico. Lasciati da parte i pila si combatté, corpo a corpo, con le spade. Ma i Germani velocemente secondo il loro costume, si schierarono in falange e sostennero l'assalto delle spade. Si trovarono parecchi Romani che furono capaci di saltare sopra le falangi e strappare con le loro mani gli scudi e colpire da sopra.»
Appartengono certamente a questo periodo i più "famosi" assedi dell'intera storia romana, per le migliori tecniche militari adottate, con cui i Romani riuscirono ad assaltare ed occupare anche città nemiche considerate inespugnabili. Ricordiamo ad esempio l'assedio di Numanzia da parte di Scipione Emiliano, di Atene per merito di Lucio Cornelio Silla, o di Avarico e del più conosciuto e studiato dai moderni di Alesia, ad opera di Gaio Giulio Cesare. I Romani utilizzavano tre principali metodi per impadronirsi delle città nemiche:
Se consideriamo l'assedio di Avarico, i Romani ottennero la vittoria finale a caro prezzo, dopo quasi un mese di estenuante assedio, che apparentemente non aveva portato alcun vantaggio al proconsole romano:
«Al grandissimo valore dei soldati romani venivano opposti espedienti di ogni genere da parte dei Galli [...] Essi, infatti, con delle corde deviavano le falci murali e dopo averle assicurate le tiravano dentro [...] toglievano la terra sotto il terrapieno con gallerie, con grande abilità poiché nel loro paese esistevano grandi miniere di ferro [...] avevano inoltre costruito delle torri in legno a diversi piani lungo tutte le mura e le avevano coperte di pelli [...] e con frequenti sortite di giorno e di notte davano fuoco al terrapieno o assalivano i legionari impegnati a costruire [...] le loro torri le sopraelevavano per eguagliare le torri dei Romani, tanto quanto il terrapieno era innalzato giornalmente [...] con legni induriti dal fuoco, con pece bollente o sassi pesantissimi ritardavano lo scavo delle gallerie e impedivano di avvicinarle alle mura.»
Sebbene vi fossero questi continui impedimenti per l'esercito romano, i legionari, pur ostacolati dal freddo e dalle frequenti piogge, riuscirono a superare tutte le difficoltà ed a costruire nei primi venticinque giorni di assedio, un terrapieno largo quasi 100 metri ed alto quasi 24 metri, di fronte alle due porte della cittadella. Cesare, era così riuscito a raggiungere il livello dei contrafforti, tanto da renderli inutili per la difesa degli assediati.
Il ventisettesimo giorno dall'inizio dell'assedio di Avarico, scoppiato un grande temporale, Cesare ritenne fosse giunto il momento opportuno di attaccare, considerando sia la difficoltà dei nemici di appiccare nuovi fuochi al terrapieno sotto una pioggia battente, e sia la minor cura con cui il servizio di guardia delle mura sarebbe stato disposto rispetto ad altri momenti. I Romani, pertanto, dapprima si nascosero all'interno delle vineae, ed al segnale convenuto riuscirono ad irrompere con grande velocità sugli spalti della città. Dopo aspri combattimenti prima sulle mura e poi all'interno della città, dove i Galli si erano disposti in forma di cuneo, intenzionati a battersi fino alla morte, i soldati romani, esasperati dalle lunghe fatiche patite nel corso di quell'ultimo mese, bruciarono l'intera città e trucidarono l'intera popolazione, comprese le donne, i vecchi ed i bambini. Dei 40.000 abitanti solo 800 salvarono la vita.[93]
Ad Alesia le opere messe in atto da Cesare furono mastodontiche, come mai prima di allora e dopo, nell'intera storia romana si erano mai viste. La città dei Galli era su una posizione fortificata in cima ad una collina con spiccate caratteristiche difensive, circondata a valle da tre fiumi (l'Ose a nord, l'Oserain a sud ed il Brenne ad ovest). Per tali ragioni Cesare ritenne che un attacco frontale non avrebbe potuto avere buon esito ed optò per un assedio, nella speranza di costringere i Galli alla resa per inedia. Considerato che circa ottantamila soldati si erano barricati nella città, oltre alla popolazione civile locale dei Mandubi, sarebbe stata solo questione di tempo: la fame prima o poi li avrebbe condotti alla morte o costretti alla resa.
Per garantire un perfetto blocco, Cesare ordinò la costruzione di una serie di fortificazioni, chiamate "controvallazione" (interna) e "circonvallazione" (esterna), attorno ad Alesia.[90] I dettagli di quest'opera ingegneristica sono descritti da Cesare nei Commentari e confermati dagli scavi archeologici nel sito. Per prima cosa Cesare fece scavare una fossa (ad occidente della città di Alesia, tra i due fiumi Ose e Oserain) profonda venti piedi (pari a circa sei metri), con le pareti dritte in modo che il fondo fosse tanto largo quanto distavano i margini superiori. Ritirò, quindi, tutte le altre fortificazioni a quattrocento passi da quella fossa ad occidente (seicento metri circa).[94]
A questo punto, fu costruito, nel tempo record di tre settimane, la prima "circonvallazione" di quindici chilometri tutto intorno all'oppidum nemico (pari a dieci miglia romane[89]) e, all'esterno di questo, per altri quasi ventun chilometri (pari a quattordici miglia), la "controvallazione".[95]
Le opere comprendevano:
Erano necessarie considerevoli capacità ingegneristiche per realizzare una tale opera, ma non nuove per uomini come gli edili, gli ufficiali di Roma, che solo pochi anni prima, in dieci giorni, avevano costruito un ponte attraverso il Reno con somma meraviglia dei Germani. Ed infine, per non trovarsi poi costretto ad uscire dal campo con pericolo per l'incolumità delle sue armate, Cesare ordinò di avere un deposito di foraggio e di frumento per trenta giorni.[89]
Cesare, durante la conquista della Gallia nel 58 a.C., dovendosi scontrare con le armate germaniche, racconta di alcune abitudini dei guerrieri germani, abili sia con la cavalleria che utilizzavano per compiere rapide ed improvvise sortite, sia con la fanteria, forte di uno schieramento falangitico. Nel primo scontro che il proconsole romano fece con gli stessi, Cesare racconta riguardo alla loro cavalleria, che:
«I cavalieri avevano scelto i fanti da ogni reparto uno ad uno, per la propria personale difesa. Partecipavano alle battaglie in loro compagnia. I cavalieri si ritiravano presso di loro e se il combattimento diventava più difficile andavano insieme all'assalto. Se qualcuno era ferito in modo grave, ed era caduto da cavallo, lo circondavano per difenderlo. E se dovevano avanzare o ritirarsi rapidamente, tanto erano esercitati, che risultavano tanto veloci sostenendosi alle criniere dei cavalli, eguagliandone la corsa.[98]»
Successivamente, giunto in Alsazia, si apprestò a battersi con il grosso dell'esercito nemico e la sua possente fanteria. Cesare schierò le sue truppe in modo che le sue forze ausiliarie fossero disposte di fronte al campo piccolo e poi, via via, le sei legioni su tre schiere (triplex acies). Avanzò, quindi, verso il campo dei Germani di Ariovisto e lo costrinse a disporre le sue truppe fuori dal campo. Quest'ultimo ordinò l'esercito per tribù: prima quella degli Arudi, poi i Marcomanni, i Triboci, i Vangioni, i Nemeti, i Sedusi ed infine gli Svevi. Ogni tribù, poi, fu circondata da carri e carrozze, affinché non ci fosse la possibilità di fuga per nessuno: sopra i carri c'erano le donne, che imploravano i loro uomini di non abbandonarle alla schiavitù dei Romani.[99] Cesare così racconta lo svolgimento della battaglia:
«Cesare mise i legati ed il questore a capo ciascuno di una legione, egli in persona diede inizio al combattimento dall'ala destra, poiché aveva notato che quella era la parte dei nemici più debole. I nostri andarono all'attacco con tanta violenza… che non ci fu neppure il tempo per lanciare i giavellotti contro i Germani. Ed i Germani con rapidità formarono una falange e sostennero l'assalto delle spade romane, e molti dei nostri riuscirono a saltare sopra la falange ed a strappare loro gli scudi ed a colpire dall'alto. Una volta respinta l'ala sinistra nemica e messa in fuga, all'ala destra i nemici in grande numero esercitavano una forte pressione sulla nostra schiera. Essendosi accorto di ciò, il giovane Publio Licinio Crasso [figlio del triumviro] che comandava la cavalleria, poiché era meno impegnato [...] mandò ai nostri in difficoltà la terza schiera. Così fu ristabilita la situazione e tutti i nemici furono messi in fuga e non smisero di scappare prima di aver raggiunto il fiume Reno distante dal luogo della battaglia circa 5.000 passi (7,5 km).[100]»
L'esercito mitridatico poteva contare su una tipologia di truppe molto vasta: dalla fanteria falangitica di stampo ellenistico, alla cavalleria "leggera" di arcieri armeniaco-partico, a quella "pesante" catafratta, oltre ad unità di carri falcati, sempre di tipo orientale, fino a flotte (anche di pirati) composte per lo più da pentecontere e biremi. Roma ebbe così modo di adattare le proprie tattiche al nuovo nemico orientalie nel corso di trent'anni di guerre.
Quando le legioni romane si scontrarono per la prima volta con le armate partiche nel 53 a.C. a Carre nella Mesopotamia settentrionale, subendo una delle più tremende sconfitte dell'intera storia romana, i successivi generali furono costretti a ripensare quale nuova tattica mettere in atto per difendersi da queste cariche di cavalleria "pesante" catafratta. Nelle successive campagne militari che si susseguirono, i legionari utilizzarono una disposizione più protetta, formando una specie di "muro umano" su due linee. La prima linea s'inginocchiava ponendo lo scutum ovale di fronte ed i pila sollevati, che uscivano dallo spazio tra uno scudo e l'altro con una leggera inclinazione di 30º. La seconda linea copriva la prima con gli scudi creando una tettoia, e da dietro si preparavano a scagliare i pila. Questa formazione era utile per difendersi, ma risultava lenta da applicare, praticamente immobile e debole sui fianchi e sul retro. Era una formazione difensiva da usarsi in caso di carica diretta, dato che perdeva qualunque validità tattica durante un'offensiva.
«Tanto grande ed assoluta è la loro ubbidienza ai comandanti, da costituire un vanto in tempo di pace; in battaglia, da rendere l'intero esercito compatto, quasi fosse un blocco unico.»
Nello stabilire quale fosse il corretto ordine di marcia delle singole unità che componevano un'armata: la fanteria ausiliaria era mandata in avanscoperta; seguiva l'avanguardia composta da truppe legionarie, appoggiate da un corpo di cavalleria; dietro loro alcuni legionari muniti di attrezzi per la costruzione dell'accampamento al termine della giornata di marcia; seguivano gli ufficiali ed il generale con scorta armata e guardia del corpo nel caso dell'imperatore (si trattava della guardia pretoriana); ancora un gruppo di legionari e cavalieri; poi muli carichi di armi da assedio smontate, oltre a bagagli ed alimenti; seguivano altre legioni, eventuali forze mercenarie o di popoli clienti; e chiudeva la retroguardia composta da un grosso contingente di cavalleria. Questa la descrizione che fa Giuseppe Flavio dell'armamento che utilizzava l'esercito romano, durante la prima guerra giudaica (66-74):
«Si mettono marcia tutti in silenzio e ordinatamente, restando ciascuno al proprio posto come fossero in battaglia. I fanti indossano corazze (lorica) ed elmi (cassis o galea), una spada appesa su ciascun fianco, dove quella di sinistra è più lunga (gladius) di quella di destra (pugio), quest'ultima non più lunga di un palmo. I soldati "scelti", che fanno da scorta al comandante, portano una lancia (hasta) e uno scudo rotondo (parma); il resto dei legionari un giavellotto (pilum) e uno scudo oblungo (scutum), oltre ad una serie di attrezzi come, una sega, un cesto, una piccozza (dolabra), una scure, una cinghia, un trincetto, una catena e cibo per tre giorni; tanto che i fanti sono carichi come bestie da soma (i muli di Mario[101]).
I cavalieri portano una grande [e più lunga] spada sul fianco destro (spatha), impugnano una lunga lancia (lancea), uno scudo viene quindi posto obliquamente sul fianco del cavallo, in una faretra sono messi anche tre o più dardi dalla punta larga e grande non meno di quella delle lance; l'elmo e la corazza sono simili a quelli della fanteria. L'armamento dei cavalieri scelti, quelli che fanno da scorta al comandante, non differiscono in nulla a quello delle ali di cavalleria. A sorte, infine, si stabilisce quale delle legioni debba iniziare la colonna di marcia.»
Questa la descrizione che fa, sempre Giuseppe Flavio, dell'ordine di marcia:
«Vespasiano, muovendosi per invadere la Galilea, fece uscire da Tolemaide l'esercito disponendolo nell'ordine di marcia consueto ai Romani. Comandò, quindi, che in testa allo schieramento avanzassero le truppe ausiliarie armate alla leggera e gli arcieri (sagittarii), pronti a respingere improvvisi attacchi nemici ed esplorare (exploratores) i boschi adatti alle imboscate. Insieme a loro procedeva anche un contingente armato "pesantemente", in parte a piedi e in parte a cavallo. Dietro a questi erano disposti dieci uomini per ogni centuria, che portavano il proprio bagaglio personale e gli attrezzi per misurare l'accampamento (mensores), poi subito dopo i genieri delle strade, sia rendere diritti i percorsi, sia per livellare il terreno, sia per abbattere gli alberi lungo il cammino, affinché l'esercito non avesse una marcia difficile. Dietro a questi mise i bagagli suoi e degli ufficiali (impedimenta), proteggendoli con un numeroso reparto di cavalleria. Dietro cavalcava lui stesso (Vespasiano), circondato da fanti e cavalieri scelti (speculatores) e di lancieri (equites cataphractarii e lanciarii). Veniva, quindi, la cavalleria legionaria, formata da 120 cavalieri per ciascuna legione. Seguivano i muli che trainavano le elepoli e le altre macchine da guerra. Dietro a questi i legati (legati legionis) e i prefetti delle coorti (praefecti cohortis) con i tribuni (tribuni militum), scortati da soldati scelti (speculatores); poi le insegne (signa) che circondano l'aquila, che era portata in testa ad ogni legione romana. L'aquila è infatti la regina e il più forte di tutti gli uccelli e rappresenta, per i Romani, il simbolo del loro impero oltre ad essere auspicio di vittoria contro qualunque nemico. Dietro alle sacre insegne c'erano i trombettieri (tubicines, cornicines e bucinatores) e quindi il grosso della fanteria legionaria disposta lungo sei file. E sempre secondo consuetudine, li accompagnava un centurione per fare in modo che marciassero in buon ordine nei ranghi. Dietro alla fanteria legionaria venivano i servi di ciascuna legione, i quali portavano i bagagli dei soldati sui muli e sulle bestie da soma (impedimenta); subito dopo le legioni, c'erano le truppe alleate, protette da una retroguardia composta da fanti leggeri e pesanti e da numerose ali di cavalleria (auxilia).»
Altra descrizione di Giuseppe Flavio, sempre ai tempi della prima guerra giudaica, ricorda Tito, figlio di Vespasiano, quando marciò da Cesarea Marittima a Gerusalemme per assediarla:
«La marcia di Tito in territorio nemico iniziava con gli alleati regi e tutte le forze ausiliarie, dietro le quali si trovava il genio per la costruzione di strade e la misurazione degli accampamenti. Seguivano poi le salmerie dei comandanti con la dovuta scorta, mentre dietro a questa procedeva Tito con i fanti scelti, i lancieri e le turmae della cavalleria legionaria. Dietro si trovavano le macchine da guerra, poi i tribuni, i prefetti di coorte insieme ai reparti scelti, quindi intorno all'aquila le insegne precedute dai rispettivi trombettieri. Seguiva la fanteria legionaria, che marciava su sei file, seguita da salmerie, servi di ogni legione. Dietro a tutti, i mercenari e la retroguardia di scorta ad essi.»
Centocinquant'anni più tardi, al tempo di Massimino Trace (nel 238), Erodiano racconta che l'Imperatore romano era deciso a marciare su Roma per reprimere la rivolta di Pupieno e Balbino,[102] con un ordine di marcia a forma di grande rettangolo, ponendo il bagaglio pesante, gli approvvigionamenti ed i carri al centro della formazione, ed infine prendendo lui stesso il comando della retroguardia.[103] Su ogni fianco marciavano gli squadroni di cavalleria, truppe di Mauri armati di giavellotto e di arcieri orientali. L'imperatore condusse, inoltre, con sé anche un consistente numero di ausiliari germani, i quali furono posti all'avanguardia, primi a sopportare gli assalti di un eventuale nemico. Questi uomini estremamente selvaggi e audaci, risultavano molto abili nelle fasi iniziali della battaglia e, comunque, sacrificabili. Certamente meglio loro che le legioni di cittadini romani.[104]
Al termine della giornata era costruito un accampamento da campagna, per poter soggiornare la notte, protetti da eventuali attacchi notturni dei nemici della zona.[105]
Questa la descrizione che fa Giuseppe Flavio di un tipico accampamento di marcia, durante la prima guerra giudaica (66-74):
«I nemici non possono coglierli di sorpresa. [I Romani], infatti, quando entrano in territorio nemico non vengono a battaglia prima di aver costruito un accampamento fortificato. L'accampamento non lo costruiscono dove capita, né su terreno non pianeggiante, né tutti vi lavorano, né senza un'organizzazione prestabilita; se il terreno è disuguale viene livellato. L'accampamento viene poi costruito a forma di quadrato. L'esercito ha al seguito una grande quantità di fabbri e arnesi per la sua costruzione.»
Giuseppe Flavio aggiunge che all'interno vi sono tutta una serie di file di tende, mentre all'esterno la recinzione (vallum) assomiglia ad un muro munito di torri ad intervalli regolari. In questi intervalli vengono collocate tutta una serie di armi da lancio, come catapulte e baliste con relativi dardi, pronti per essere lanciati.[106]
«Nelle fortificazioni si aprono quattro porte, una su ciascun lato, comode per farvi transitare sia animali da tiro, sia per l'utilizzarle in sortite esterne da parte dei soldati, in caso di emergenza, essendo le stesse molto ampie. L'accampamento, quindi, è intersecato al centro da strade che s'incrociano ad angolo retto (via Praetoria e via Principalis). Nel mezzo vengono poste le tende degli ufficiali (quaestorium) e quella del comandante (praetorium), che assomiglia a un tempio. Una volta costruito, appare come una città con la sua piazza (forum), le botteghe degli artigiani e i seggi destinati agli ufficiali dei vari gradi (tribunal), qualora debbano giudicare in occasione di qualche controversia. Le fortificazioni esterne e tutto ciò che racchiudono vengono costruite molto rapidamente, tanto numerosi ed esperti sono quelli che vi lavorano. Se è necessario, all'esterno si scava anche un fossato profondo quattro cubiti (pari a quasi 1,8 metri) e largo altrettanto.»
Una volta costruito l'accampamento, i soldati si sistemano in modo ordinato al suo interno, coorte per coorte, centuria per centuria. Vengono, quindi, avviate tutta una serie di attività con grande disciplina e in sicurezza, dai rifornimenti di legna, di vettovaglie e d'acqua; quando ne hanno bisogno, provvedono ad inviare apposite squadre di exploratores nel territorio circostante.[107]
Nessuno può pranzare o cenare quando vuole, al contrario tutti lo fanno insieme. Sono poi gli squilli di buccina ad impartire l'ordine di dormire o svegliarsi, i tempi dei turni di guardia, e non vi è operazione che non si conduca a termine senza un preciso comando. All'alba, tutti i soldati si presentano ai centurioni, e poi questi a loro volta vanno a salutare i tribuni e insieme con costoro, tutti gli ufficiali, si recano dal comandante in capo. Quest'ultimo, come consuetudine, dà loro la parola d'ordine e tutte le altre disposizioni della giornata.[107]
Quando si deve togliere l'accampamento, le buccine danno il segnale. Nessuno resta inoperoso, tanto che, appena udito il primo squillo, tolgono le tende e si preparano per mettersi in marcia. Ancora le buccine danno un secondo segnale, che prevede che ciascuno carichi rapidamente i bagagli sui muli e sugli altri animali da soma. Si schierano, quindi, pronti a partire. Nel caso poi di accampamenti semi-permanenti, costruiti in legno, danno fuoco alle strutture principali, sia perché è sufficientemente facile a costruirne uno nuovo, sia per impedire che il nemico possano utilizzarlo, rifugiandosi al suo interno.[108]
Le buccine danno un terzo squillo, per spronare quelli che per qualche ragione siano in ritardo, in modo che nessuno si attardi. Un ufficiale, poi, alla destra del comandante, per tre volte rivolge loro in latino, la domanda se siano pronti a combattere, e quelli per tre volte rispondono con un grido assordante, dicendo di esser pronti e, come invasati da una grande esaltazione guerresca accompagnano le grida, alzando le destre.[108]
«[I Romani] si comportano con uguale disciplina anche in battaglia [oltre a costruire l'accampamento], eseguono molto rapidamente le manovre nella dovuta direzione, e in schiera compatta avanzano o indietreggiano al comando.»
«Tanto sono compatte le loro schiere, agili nelle manovre, le orecchie tese ai comandi, gli occhi ai segnali, le mani all'azione. [I Romani] sono sempre rapidi nell'agire, lenti nel sentire qualche colpo infertogli, e non vi fu situazione in cui essi dovettero essere sconfitti, non alla superiorità numerica, non a stratagemmi o a difficoltà di terreno, e neppure alla sfortuna. Per loro, infatti, essere i più forti è cosa più importante dell'avere fortuna.»
I Romani generalmente si basavano su vari metodi in battaglia, che adeguavano in base al nemico ed al terreno dello scontro. Nel combattimento in campo aperto, la cavalleria era solitamente posizionata alle "ali". Le legioni erano posizionate nella parte centrale dello schieramento in triplex acies (tripla linea, ed in rari casi in duplex acies ovvero su una doppia linea),[109] poiché come fanteria pesante, dovevano reggere lo scontro frontale delle unità nemiche. Erano protette alle spalle dall'artiglieria e da quelle truppe ausiliarie di fanteria specializzata nel lancio di dardi, frecce, ecc. (come arcieri, frombolieri, lanciatori in genere). Questa seconda linea serviva a decimare il nemico prima ancora che potesse prendere contatto con l'armata romana (come ben illustrato nel film de Il Gladiatore). Alle spalle dell'esercito schierato, magari su un promontorio, la guardia pretoriana e l'Imperatore stesso. Era necessario vi fosse una forma di sinergia tra le diverse unità da combattimento: la combinazione di legioni e truppe ausiliarie (cavalleria, fanteria leggera e truppe di tiratori), conferiva ai Romani una superiorità tattica quasi su ogni tipo di terreno e contro qualunque tipo di avversari.[110]
Questo genere di tattica sembra sia stata adottata per far fronte alla formazione a cuneus delle popolazioni germaniche del nord Europa. Non sappiamo a quando si deve il suo primo impiego. Possiamo immaginare sia avvenuto durante le prime campagne in Germania sotto Augusto e Tiberio, oppure nei secoli successivi, dopo la grande invasione della metà-fine del II secolo (al tempo degli Antonini), come ci tramanda Aulo Gellio, scrittore di quest'ultimo periodo.[111] Tale formazione prevedeva una disposizione "a tenaglia", a forma di "V" ad angolo acuto, con le estremità avanzate, pronte ad avvolgere la formazione "a cuneo" che all'interno vi si infilava. Questo genere di schieramento è menzionata anche da Ammiano Marcellino durante la guerra condotta da Giuliano contro gli Alamanni, poco prima dello scontro decisivo di Argentoratae del 357.[112]
Nel compiere un assedio le tecniche utilizzate non erano molto dissimili da quanto abbiamo visto nel periodo precedente (dopo la riforma di Mario). Anche in questo periodo furono utilizzate macchine, scale, torri per la scalata o la demolizione delle mura nemiche, sia unità di artiglieria pesante come baliste (affidate ai cosiddetti ballistarii), ecc. per colpire gli assediati da lontano.
Spesso prima di cominciare un assedio, era eretto lungo l'intero percorso un Agger, ovvero un fossato ed un terrapieno a volte sormontato da una palizzata, per bloccare il nemico internamente, ed uno esternamente per difendersi da eventuali attacchi di nemici accorrenti in aiuto degli assediati. Era inoltre usata comunemente, una volta sfondata una porta della cittadella assediata, o per avvicinarsi a strutture fortificate evitando frecce e proiettili vari che lanciavano i difensori, la celebre formazione a Testuggine, così chiamata poiché i legionari posizionavano gli scudi affiancati l'uno all'altro ovunque, sia lateralmente, sia sopra la testa, creando un gruppo compatto completamente protetto. Tra i principali assedi di questo periodo ricordiamo quello di Iotapata del 67,[113] Gerusalemme del 70[114] e di Masada del 73.
Nel caso di guerriglia con popolazioni che tendevano ad evitare lo scontro diretto (come le tribù spagnole o alpine dei primi anni del principato di Augusto), le cui risorse e beni risultavano non fissi, o per lo meno non concentrati in un solo punto, era preferibile l'impiego, non tanto delle legioni, quanto quello delle più agili e maggiormente adatte, unità ausiliarie.[115]