Giovanni Amendola | |
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Ministro delle colonie del Regno | |
Durata mandato | 26 febbraio 1922 – 30 ottobre 1922 |
Predecessore | Giuseppe Girardini |
Successore | Luigi Federzoni |
Deputato del Regno d'Italia | |
Legislatura | XXV, XXVI, XXVII |
Gruppo parlamentare | Demosociale |
Collegio | Salerno |
Incarichi parlamentari | |
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Sito istituzionale | |
Dati generali | |
Partito politico | PSI (1897-1898) PR (1898-1919) DL (1919-1922) PDI (1922-1924) UN (1924-1926) |
Titolo di studio | Laurea in filosofia |
Università | Università degli Studi di Firenze |
Professione | Politico, pubblicista |
Firma |
Giovanni Battista Amendola (Episcopio di Sarno, 15 aprile 1882 – Cannes, 7 aprile 1926) è stato un politico e giornalista italiano.[1]
Giovanni Amendola nasce a Episcopio di Sarno[2] nel 1882 da Pietro, originario di Sarno, carabiniere, e Adelaide Bianchi. A due anni è con i genitori a Firenze, dove il padre presta servizio per l'Arma.[3] Si trasferisce poi a Roma, dove consegue la licenza media. A quindici anni (1897) s'iscrive alla gioventù socialista. L'anno successivo è apprendista al quotidiano del Partito Radicale Italiano «La Capitale». Nello stesso anno scoppiano a Milano i moti popolari; la repressione ordinata dal governo impone lo scioglimento di molte sedi socialiste in tutta Italia. Amendola viene arrestato per aver voluto impedire la chiusura della sede romana.
Negli anni successivi Amendola scrive alcuni articoli per «La Capitale» - al tempo della direzione di Edoardo Arbib - su esoterismo e teosofia. Tramite questi, Amendola entra in contatto con la Società Teosofica. Tra il 1900 e il 1905 è membro della loggia teosofica Dio e Popolo, guidata al tempo da Isabel Cooper Oakley. Viene introdotto in un mondo cosmopolita, impara l'inglese e il francese.[4] Quando capisce però che la teosofia che sta studiando, lungi dall'essere una teoria scientifica, altro non è che una variante del protestantesimo[senza fonte], lascia la loggia.[5] Durante quel periodo conosce l'intellettuale ebrea lituana Eva Oscarovna Kühn e se ne innamora. Si sposano religiosamente (con rito valdese) il 25 gennaio 1907 e civilmente il 7 febbraio. Dalla loro unione nasceranno quattro figli: Giorgio (1907 - 1980), Adelaide (1910-1980), Antonio (1916-1953) e Pietro (1918 - 2007).
La sua ricerca interiore, volta ad individuare una sintesi tra misticismo e razionalismo, lo porta a studiare la poetica del drammaturgo norvegese Henrik Ibsen. Scrive due articoli per la rivista letteraria fiorentina «Leonardo» di Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini[6], e collabora alla rivista modernista «Il Rinnovamento» (1907-1909). Il 24 maggio 1905 viene iniziato in massoneria nella Loggia Giandomenico Romagnosi, appartenente al Grande Oriente d'Italia[7]. L'anno successivo soggiorna con la moglie a Berlino e a Lipsia, dove segue i corsi di Wilhelm Wundt, fondatore di un noto metodo sperimentale in psicologia. Nel 1908 abbandona la massoneria.[8]
Nell'ottobre 1909 si stabilisce con la famiglia a Firenze, dove dirige la Biblioteca filosofica. Tenta di fondare una rivista di studi religiosi d'ispirazione modernista finanziata da Alessandro Casati (che Amendola aveva conosciuto ai tempi della collaborazione a «Rinnovamento»), ma il progetto non vede la luce. Collabora con «La Voce», fondata nel 1908 da Prezzolini.
Nel 1911 fonda e dirige una sua rivista assieme a Papini, «L'Anima». In quell'anno si laurea in filosofia con una tesi su Immanuel Kant (La Categoria. Appunti critici sullo svolgimento della critica delle Categorie da Kant a noi). All'epoca, ispirato specialmente dai racconti fantastici e intimisti di Giovanni Papini, Amendola coltiva la prosa narrativa, con brevi frammenti pubblicati, sulla Riviera Ligure, con l'eteronimo, byroniano, di Manfredo.[9] La questione più scottante del dibattito politico italiano è l'utilità di un intervento militare in Libia. Amendola, critico in un primo tempo verso la campagna coloniale in Africa, dopo l'inizio del conflitto appoggia lo sforzo bellico dalle colonne della «Voce», contribuendo a far aderire all'impresa libica la rivista stessa.[10]
Collabora con «il Resto del Carlino» con articoli di carattere culturale, grazie ai buoni uffici di Mario Missiroli[8], per diventare poi (luglio 1912) corrispondente da Roma del quotidiano. Alla vigilia delle elezioni del 1913 sollecita i radicali a schierarsi con Giovanni Giolitti (capo del governo) e a separarsi dai socialisti. Le elezioni, le prime a svolgersi con il suffragio universale maschile, confermano la maggioranza uscente; i radicali guadagnano 62 seggi sedendosi tra i banchi dell'opposizione. Nello stesso anno Amendola tenta la carriera accademica ottenendo una libera docenza in Filosofia teoretica all'Università di Firenze, non ottenendo nessuna cattedra. Nell'aprile 1914 è nominato per un anno docente della disciplina all'Università di Pisa, e in giugno viene assunto alla redazione romana del «Corriere della Sera» (già all'epoca il maggiore quotidiano italiano). Le sue convinzioni liberali e la sua posizione distaccata nei confronti della sinistra parlamentare coincidono con la linea del quotidiano di Albertini.[11] Amendola rinuncia per sempre all'attività accademica, per rimanere a Roma e avviarsi alla carriera pubblicistica e politica.
Allo scoppio della prima guerra mondiale, ritiene che la guerra contro l'Austria-Ungheria sia diventata inevitabile. Egli ritiene che un conflitto possa essere utile al ritorno alla madrepatria dei territori italiani ancora sotto dominio austriaco[12]. Mantenendo posizioni irredentiste, si schiera per l'intervento italiano nella prima guerra mondiale. Come gran parte dei liberali italiani, vede nella guerra una possibilità di risorgimento morale del Paese. Arruolatosi come tenente di artiglieria sul fronte dell'Isonzo, è insignito di una medaglia di bronzo al valor militare. Tornato in Italia, la carriera pubblicistica e quella politica proseguono parallelamente. Nel 1916 è capo dell'ufficio romano del «Corriere della Sera». Nel 1918 è tra i promotori del Patto di Roma, un accordo tra rappresentanti delle varie nazionalità sottomesse agli Asburgo per lo smembramento dell'impero austro-ungarico e l'autodeterminazione dei popoli. Tale iniziativa viene poi contraddetta dalla politica del ministro degli Esteri italiano Sidney Sonnino, con il quale Amendola polemizza duramente tra il 1918 e il 1919.[13]
Alle elezioni politiche del 1919 Amendola si candida con il partito «Democrazia Liberale».[8] È eletto nel collegio di Salerno insieme ad Andrea Torre e ad altri tre candidati della lista. Entra così per la prima volta in Parlamento. La sua lista sostiene la corrente che fa capo al leader radicale Francesco Saverio Nitti, personaggio con il quale stringe una lunga amicizia. Il Salernitano è la sua base elettorale più importante, anche se non ottiene mai un controllo completo della provincia, giacché è contrastato dai liberali legati a Giovanni Giolitti, rappresentati in provincia da Giovanni Camera[14]. Nonostante l'impegno parlamentare Amendola non rinuncia all'attività giornalistica, anzi prosegue la sua carriera su entrambi i fronti: quello giornalistico e quello politico.
È rieletto alla Camera nel maggio 1921; entra nel gruppo parlamentare "Democrazia unitaria". Poi lascia il «Corriere della Sera» per fondare un nuovo quotidiano con Andrea Torre (anch'egli salernitano e proveniente dal «Corriere») e Giovanni Ciraolo. Nel 1922 si susseguono rapidamente molti avvenimenti. Il 26 gennaio vede la luce «Il Mondo», destinato a diventare nel giro di pochi anni una delle voci più autorevoli della stampa democratica. Un mese dopo cade il debole governo Bonomi. Amendola è chiamato nel primo governo Facta, in quota liberaldemocratica, a ricoprire la carica di ministro delle Colonie. In aprile il gruppo di Democrazia Liberale alla Camera (di cui Amendola fa parte) si sfalda in tre parti: dei 79 deputati di cui è composto, 40 costituiscono un nuovo gruppo (“Democrazia”), 16 si uniscono al gruppo di Democrazia Sociale e solo 23 membri rimangono nel gruppo originario[15]. Amendola prende posizione contro tale frammentazione. Proteso ad unificare i gruppi liberaldemocratici in Parlamento, in giugno fonda con Nitti il «Partito democratico italiano». Alla nuova formazione aderiscono 35 deputati. Una conseguenza indesiderata si verifica al giornale: il direttore Andrea Torre lascia «Il Mondo», cedendo il quotidiano alla corrente di Amendola, il quale ne fa il giornale di riferimento della propria formazione politica. Ben 29 deputati sono meridionali. Non a caso, la diffusione del giornale prediligerà le regioni del Mezzogiorno e i finanziamenti proverranno da industriali del Sud[16].
Dopo la marcia su Roma e l'insediamento del governo Mussolini (16 novembre 1922) Amendola sceglie una linea di ferma opposizione. Difensore delle prerogative del Parlamento, si schiera decisamente contro il governo Mussolini, non accettando le posizioni di compromesso che avanzano altri esponenti della classe dirigente liberale, come Giovanni Giolitti e Antonio Salandra. Scrive ad esempio in quegli anni: "Il fascismo ha le pretese di una religione, le supreme ambizioni e le inumane intransigenze di una crociata". Sulle colonne del quotidiano Il Mondo sarà fra i primi a cogliere lucidamente e profeticamente la natura totalitaria dell'ideologia e del partito fascista:
«Veramente la caratteristica più saliente del moto fascista rimarrà, per coloro che lo studieranno in futuro, lo spirito «totalitario»; il quale non consente all’avvenire di avere albe che non saranno salutate col gesto romano, come non consente al presente dì nutrire anime che non siano piegate nella confessione: «credo». Questa singolare «guerra di religione» che da oltre un anno imperversa in Italia non vi offre una fede (che a voler chiamar fede quella nell’Italia, possiamo rispondere che noi l’avevamo già da tempo quando molti dei suoi attuali banditori non l’avevano ancora scoperta!) ma in compenso vi nega il diritto di avere una coscienza – la vostra e non l’altrui – vi preclude con una plumbea ipoteca l’avvenire»
A causa delle sue posizioni critiche verso il regime subisce frequenti intimidazioni e aggressioni, che sfociarono nell'aggressione fisica il 26 dicembre 1923 a Roma, quando viene bastonato da quattro fascisti e ferito alla testa.[17] La stessa vittima avrebbe poi narrato l’aggressione all’Alta Corte di Giustizia[18]:
«La mattina del 26 dicembre uscii di casa verso le 10. Guardai l'orologio del palazzo Eden e constatai che erano precisamente le ore 10 e 10. Procedetti per via Francesco Crispi, tenendomi sulla destra. Avevo appena oltrepassato il negozio di cartoline, quando avvertii uno spintone sulla spalla destra, subito dopo seguìto da voci concitate e da colpi alla testa. Cercai di sottrarmi, attraversando la strada, ma fui seguìto dagli aggressori che si tenevano alle mie spalle, fino in vicinanza del negozio Brunner. Mentre l'aggressione si svolgeva, udii un colpo di rivoltella esploso dietro le mie spalle. Ad un certo punto, uno degli aggressori mi venne davanti e mi colpì sulla faccia con un bastone ricoperto di cuoio. Era più basso di me, di corporatura piuttosto tarchiata, roseo nel volto, e con qualche capello grigio. Resistei finché potei, tentando di parare i colpi; ma poi mi mancarono le forze e caddi a terra, senza perdere i sensi, guardando verso via Sistina. Gli aggressori continuarono ancora a colpirmi; poi mi lasciarono»
Nell'aprile 1924 si candida alla Camera nella circoscrizione della Campania. Viene rieletto, diventando uno degli esponenti più in vista dell'opposizione. Nel mese successivo dà vita all'«Unione meridionale», trasformata in Unione Nazionale nel novembre successivo. Dopo il delitto Matteotti Amendola scrive sul «Mondo» (giugno 1924): “Quanto alle opposizioni, è chiaro che in siffatte condizioni, esse non hanno nulla da fare in un Parlamento che manca della sua fondamentale ragione di vita. […] Quando il Parlamento ha fuori di sé la milizia e l'illegalismo, esso è soltanto una burla”.[8] Successivamente coalizza le opposizioni (socialista, cattolica e liberale) in quella che passerà alla storia come «Secessione dell'Aventino». Annuncia che non avrebbe partecipato alle attività parlamentari fino a quando non fosse stata ripristinata la legalità. Insieme al socialista Filippo Turati, promuove una linea di opposizione non violenta al governo, confidando che, dinnanzi alle responsabilità del fascismo nella morte di Matteotti, il re si decida a nominare un nuovo governo. È contrario a qualsiasi partecipazione popolare nella lotta per abbattere il governo Mussolini ma, allo stesso tempo, rimane ostile a ricercare accordi con altri oppositori del fascismo che non avevano preso parte alla secessione dell'Aventino ed erano restati in aula, ovvero i deputati del Partito Comunista d'Italia.
Qualche mese dopo propone a Benedetto Croce di scrivere un manifesto che riunisca le maggiori intelligenze antiregime, iniziativa che si concretizzerà poi nel manifesto degli intellettuali antifascisti. La secessione dell'Aventino non produce i risultati sperati, poiché alla fine del 1924 il governo Mussolini è ancora in carica[19].
Da antifascista liberale, Amendola si contrappose anche al comunismo. Rivolse la propria proposta politica ai ceti medi, soprattutto meridionali, offrendo loro una terza soluzione liberaldemocratica al dilemma tra fascismo e comunismo, e tentò di arginare la diffusione di questi movimenti nelle regioni del Mezzogiorno, dove essi erano meno forti[2].
In un articolo del settembre 1922, Amendola prese le distanze dai comunisti, giudicandoli antinazionali e antidemocratici, ma respinse la tesi fascista per cui il pericolo di una dittatura bolscevica avrebbe reso necessaria l'instaurazione di una dittatura nazionale. Amendola replicò inoltre all'accusa rivolta ai partiti di sinistra di essere antinazionali, sostenendo che tale affermazione valesse solo per i comunisti: «i partiti di sinistra (escludiamo, si capisce, l'estrema bolscevica) in quanto mirano a far entrare nell'orbita del regime le grandi moltitudini, con una concezione integrale delle forze nazionali nelle quali borghesia, piccola borghesia e proletariato coesistano, sono partiti nazionali per eccellenza, in quanto l'idea di nazione, come insegnò Giuseppe Mazzini, coincide meglio col concetto di popolo, risultante di tutte le classi, che col concetto di classe, che non esaurisce il concetto di popolo»[N 1]. Un governo reazionario sarebbe stato quindi «un governo non di popolo, e perciò non di nazione, ma di casta militare o di oligarchia economica, poco importa, ma certo di minoranza, cioè di compressione della maggioranza: il che repugna [sic] e al principio liberale e al principio democratico, che condannano tutte le dittature d'indole bolscevica o d'indole aristocratica». Perciò era infondata l'affermazione «che l'asserita insufficiente resistenza alla dittatura bolscevica [...] tolga a noi il diritto, come democratici, di reagire a una dittatura nazionale». Al contrario, «come fummo fieramente avversi al bolscevismo, antinazionale ed antidemocratico, così siamo ugualmente avversi alle dittature, che essendo antidemocratiche, ci rifiutiamo di riconoscere come espressione della unitaria volontà nazionale». Amendola auspicò quindi che il fascismo rientrasse nell'alveo della legalità «perché il fascismo sorto per spezzare una schiavitù, non finisca con instaurarne un'altra», non potendo la violenza fascista contro gli esponenti democratici essere giustificata dagli «agguati dei comunisti – verso cui è inutile ripetere che non abbiamo nessuna simpatia, né come idealità né come metodo»[20].
Secondo Amendola, i metodi impiegati dai comunisti italiani seguendo l'esempio bolscevico finivano per legittimare il fascismo: «alla fine, i comunisti sono gli epigoni nostrani dell'esperimento russo [...] e – fanatici delle proprie concezioni fino alle ultime conseguenze – mentre legittimano con la propria adesione la dittatura di Lenin, legittimano pure la dittatura fascista in Italia, pur combattendola»[21].
Nel luglio 1924 Amendola protestò contro la prassi della stampa fascista di ridurre la lotta politica del tempo a uno scontro tra fascisti e comunisti: «s'è voluto far credere che le oscillazioni del pendolo non possano che toccare alternativamente l'estrema destra o l'estrema sinistra. Tutti gl'intermedi fra i due estremi sembrano non esistere». Nel riaffermare l'esistenza delle forze democratiche, Amendola tornò a prendere le distanze da entrambe le forze estreme: «dittatura fascista e dittatura comunista sono entrambe oppressione della maggioranza; sono negazione della sovranità popolare; nei nostri confronti, quindi, sono allo stesso piano. Contro ogni dittatura noi riaffermiamo le finalità ed il metodo del consenso, della democrazia»[22].
Dal canto loro, i comunisti assimilavano Amendola e gli altri esponenti democratici ai fascisti. Antonio Gramsci rivendicò «la nostra reale volontà di abbattere non solo il fascismo di Mussolini e Farinacci, ma anche il semifascismo di Amendola, Sturzo, Turati»[23].
Il 19 luglio 1925 Amendola giunse a Montecatini Terme per la consueta cura delle acque a beneficio del fegato. Sparsasi la voce del suo arrivo, sin dal mattino successivo davanti all'albergo nel quale alloggiava (l'Hotel La Pace) si formò un assembramento di facinorosi intenti a contestare la presenza del leader dell'opposizione. Facendosi la dimostrazione sempre più minacciosa e trascorrendo la giornata senza che dal Comando di Lucca giungessero i rinforzi richiesti dai carabinieri locali, i dirigenti del Fascio montecatinese informarono della situazione il segretario federale di Lucca Carlo Scorza, temendo che la folla tumultuante accalcata dinanzi all'ingresso principale penetrasse nell'albergo e mettesse le mani sul parlamentare antifascista. Scorza, giunto tempestivamente dal capoluogo e preoccupato di scongiurare una replica del delitto Matteotti, si premurò di tutelare l'incolumità di Amendola facendolo fuggire di nascosto e ricorrendo a tale scopo a un escamotage[24].
Mentre nella camera da lui occupata veniva posto accanto alla finestra un dipendente dell'albergo, in modo da far credere ai manifestanti che vi fosse ancora presente il politico campano, questi fu fatto uscire dall'ingresso secondario e quindi venne fatto salire sull'automobile (una Fiat 501, messa a disposizione assieme all'autista dal Garage Morescalchi) che avrebbe dovuto condurlo alla stazione ferroviaria di Pistoia. Da qui sarebbe partito per Roma viaggiando in uno scompartimento riservato e per di più protetto da un tenente della Milizia con due militi. Non essendo alle 19 ancora giunto il contingente di carabinieri che avrebbe dovuto scortare Amendola lungo il tragitto stradale, Scorza dispose che ad accompagnarlo fossero tre giovani militanti fascisti locali, due dei quali presero posto nell'auto mentre il terzo, salito sul predellino, ne discese all'uscita dalla cittadina termale. Ma una volta superata Pieve a Nievole, poco oltre l'incrocio della Colonna di Monsummano, la macchina fu costretta a fermarsi a causa di un tronco d'albero che ostruiva la strada: sceso per rimuoverlo, uno degli accompagnatori del parlamentare fu ripetutamente colpito con un bastone da un individuo apparso all'improvviso[24].
Al contempo, sia dal fosso di fianco alla carreggiata che da una stradina adiacente sbucarono altri aggressori, uno dei quali, armato anch'egli di bastone, raggiunto il lato destro della vettura ne sfondò il finestrino posteriore, in corrispondenza del posto occupato da Amendola, il quale fu investito dai frantumi. L'agguato era evidentemente finalizzato a dare una lezione all'esponente antifascista; ma gli assalitori - con ogni probabilità squadristi montecatinesi - furono impediti nel loro intento delittuoso da due imprevisti verificatisi in rapida successione. Il secondo accompagnatore onorò fino in fondo il proprio ruolo di guardia del corpo, scendendo a sua volta dalla macchina ed esplodendo dei colpi di pistola in aria, a scopo intimidatorio; nello stesso tempo sopraggiunsero una dopo l'altra due automobili, inducendo i criminali a rinunciare definitivamente ai loro truci propositi e a fuggire. Al pronto soccorso dell'ospedale di Pistoia furono medicati sia Amendola, cui le schegge del vetro avevano provocato delle lesioni alla parte destra del capo, che il suo accompagnatore preso a bastonate. Dopodiché il deputato liberale poté finalmente raggiungere la stazione, ove, prima di salire sul treno, ringraziò calorosamente i due giovani montecatinesi che, con il coraggioso atteggiamento assunto a sua difesa, lo avevano salvato[24].
Peggiorando nei mesi successivi le sue condizioni di salute, a fine anno Amendola decise di andare a curarsi a Parigi. Essendogli stato rilevato un ematoma all'emitorace sinistro (un tumore, secondo il figlio Giorgio)[25], agli inizi del 1926 venne operato. Per favorire il decorso post-operatorio i familiari lo trasferirono a Cannes, in Provenza, presso la clinica Le Cassy Fleur: qui egli si spense, all'alba del 7 aprile 1926.[26] La salma fu dapprima tumulata a Cannes, sotto una lapide che recitava: «Qui vive Giovanni Amendola...aspettando»; nel 1950 fu traslata in Italia, e collocata nel Cimitero di Poggioreale a Napoli.
La giustizia di regime non poté esimersi dall'aprire sull'attentato di Pieve a Nievole un procedimento d'ufficio, per quanto rivolto contro ignoti e destinato a finire rapidamente archiviato. L'indagine fu tuttavia riaperta nel 1945, risentendo inevitabilmente del particolare clima politico dell'immediato dopoguerra: nel nuovo impianto accusatorio il capo d'imputazione era omicidio premeditato, il mandante dell'aggressione veniva identificato nello stesso Scorza e i suoi esecutori individuati negli esponenti del Fascio montecatinese - a cominciare dall'ex podestà - compresi i tre accompagnatori di Amendola e a prescindere dal ruolo da ciascuno effettivamente assunto nella vicenda. Grazie a testimonianze emerse a distanza di 20 anni dai fatti venivano così messi sotto accusa non i responsabili dell'agguato (del resto mai identificati) bensì coloro che si erano adoperati per la salvezza del parlamentare; con Scorza giudicato in contumacia essendo nel frattempo riparato in Argentina. Pur essendo l'episodio avvenuto in territorio all'epoca lucchese, il procedimento si tenne presso il tribunale di Pistoia (dal 1927 capoluogo di provincia), andando avanti per tre anni e non modificando il proprio orientamento neppure dopo l'amnistia Togliatti del 1946, finalizzata a risolvere casi di questo genere nel segno della pacificazione nazionale.
Latitando non solo le prove, ma pure gli indizi, decisiva ai fini dell'esito del processo risultò la testimonianza dell'autista: il quale dichiarò che a costringerlo a fermarsi nel luogo in cui avvenne l'imboscata era stato l'accompagnatore seduto davanti (ossia quello colpito dal primo degli aggressori), puntandogli contro la pistola per poi immediatamente iniziare a percuotere Amendola con un bastone. Sennonché in un'udienza successiva il medesimo teste, incalzato dalle domande degli avvocati difensori, cadde in contraddizione sia rispetto alle dichiarazioni rilasciate in istruttoria che a quanto affermato in precedenza in aula, al punto di essere incriminato dal presidente della corte per falsa testimonianza; sull'attendibilità della sua deposizione gravò inoltre il fatto di non aver saputo rendere conto del motivo per cui egli avesse modificato a propria discrezione il percorso di fuga dall'albergo rispetto a quello indicatogli da un commissario di polizia[27]. Nel tentativo di difendersi l'autista sarebbe giunto a sostenere di essere stato costretto a dichiarare il falso dalle minacce ricevute da parte di tre individui penetratigli in casa la notte precedente la sua testimonianza allo scopo di imporgli la versione da sostenere in aula, terrorizzando sia lui che i familiari per mezzo delle armi impugnate.
Nemmeno tale incidente valse tuttavia a modificare il convincimento dei giudici pistoiesi, i quali riconobbero la colpevolezza di tutti gli imputati condannandoli a 30 anni di reclusione per concorso in omicidio premeditato, a piena conferma della tesi accusatoria che voleva un collegamento tra il decesso del deputato liberale e le percosse da lui presuntivamente subite nel corso dell'agguato. Secondo la sentenza, Scorza, di concerto con i dirigenti del Fascio montecatinese, avrebbe tratto volutamente in inganno Amendola, mostrandoglisi preoccupato per la gravità della situazione ma al solo scopo di farlo cadere nel tranello architettato. Nelle motivazioni non venivano tuttavia spiegati diversi punti cruciali: a cominciare dall'aggravante della premeditazione, che se risultava giustificata nei confronti di chi avrebbe organizzato l'attentato appariva meno applicabile a chi, ingaggiato all'ultimo momento per un incarico del tutto inatteso, era rimasto vittima egli stesso della violenza degli aggressori.
L'incongruenza delle conclusioni della corte d'assise rispetto a quanto emerso in dibattimento indusse la Cassazione ad accogliere parzialmente il ricorso avanzato dalla difesa degli imputati, rinviando il processo dinanzi alla corte d'appello di Perugia: la quale rimediò alle forzature dei giudici di primo grado sia sottoponendo le testimonianze utilizzate a supporto della sentenza di condanna a un esame più scrupoloso, sia attribuendo la giusta rilevanza al referto del pronto soccorso pistoiese. Quest'ultimo infatti limitando i danni riportati da Amendola alle ferite causate dai vetri escludeva che egli fosse stato colpito con corpi contundenti non solo e non tanto dagli ignoti autori dell'aggressione, quanto dall'accompagnatore accusato di averlo percosso. A conferma del fatto che il parlamentare avesse riportato lesioni cutanee e non interne abbiamo inoltre la testimonianza del figlio Pietro, a detta del quale il 30 agosto 1925 il padre si trovava in una clinica francese, "dove è andato a sottoporsi a un trattamento chirurgico che limiti i danni riportati al volto e alla testa nella seconda aggressione, subita a Montecatini (...). Gli hanno rasato i capelli perché si possa lavorare alle ferite". Dalla degenza Amendola aveva difatti inviato alla famiglia una foto che lo ritraeva con la testa rasata[28].
La vicenda giudiziaria giunse a conclusione nell'ottobre 1950, con l'assoluzione di tutti gli imputati per insufficienza di prove[29].
Amendola ha avuto quattro figli:
Il figlio Antonio fu molto attivo, anche all'interno dei Gruppo Universitario Fascista (GUF) e dei Littoriali della cultura e dell'arte, nell'organizzare l'antifascismo tra gli intellettuali italiani sotto il regime mussoliniano.[32] Il figlio Giorgio è stato un partigiano e un politico comunista, come anche il fratello Pietro.
Nel 1950 fu concessa una pensione straordinaria alla vedova di Giovanni Amendola, Eva Kühn.[33]
I giornalisti italiani hanno dedicato alla memoria di Giovanni Amendola il loro Istituto di previdenza (INPGI).[34][35]
Esistono, inoltre, in molte città d'Italia decine di strade e di piazze a lui dedicate.
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