Il secondo cerchio | |
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Pëtr Aleksandrov in una scena del film | |
Titolo originale | Круг второй Krug vtoroj |
Lingua originale | russo |
Paese di produzione | Unione Sovietica |
Anno | 1990 |
Durata | 92 min |
Rapporto | 1,37:1 |
Genere | drammatico |
Regia | Aleksandr Sokurov |
Sceneggiatura | Jurij Arabov |
Produttore | Vladimir Solov'ëv, Valentin Šlik |
Casa di produzione | Studio Troickij Most, Centr tvorčeskoj iniciativy Leningradskogo otdelenija sovetskogo fonda kultury |
Distribuzione in italiano | PFA Films |
Fotografia | Aleksandr Burov |
Montaggio | Raisa Lisova |
Scenografia | B. Kozkov, Valentina Malachieva, O. Sikorskij |
Costumi | Žanna Zamachina |
Trucco | Žanna Rodionova |
Interpreti e personaggi | |
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Krug vtoroj (in russo Круг второй?, "Il secondo cerchio") è un film drammatico del 1990 diretto da Aleksandr Sokurov, primo della cosiddetta "trilogia della morte e dell'inesistenza" che include Kamen (Pietra) del 1992 e Pagine sommesse del 1994.[1]
Nel 1991 è stato presentato alla 20ª edizione dell'International Film Festival Rotterdam, aggiudicandosi il premio FIPRESCI.
Nello spettrale paesaggio siberiano, un giovane uomo condivide lo squallido appartamento con il padre. A seguito della morte di quest'ultimo, costretto per alcuni giorni a tenere la salma in casa, ha l'opportunità di fare considerazioni sulla vita, la morte e la condizione umana. Alla fine riuscirà ad affrontare le difficoltà per dare al genitore una degna sepoltura.
Il film è stato presentato in anteprima l'11 settembre 1990 al Toronto Film Festival e in seguito è stato proiettato nel corso di altre manifestazioni cinematografiche.
Il 2 gennaio 1992, Caryn James ha definito il film sul New York Times «un inflessibile, immaginifico, magistrale lavoro», aggiungendo: «L'approccio di Sokurov non è facile da reggere per 90 minuti. I risultati sono a volte più affascinanti intellettualmente e visivamente di quanto siano emotivamente efficaci, ma alla fine The Second Circle diventa un'esperienza profondamente triste e spassionata».[2]
Il critico del Chicago Reader Jonathan Rosenbaum ha giudicato il film «un'esperienza non facile, ma intrigante e provocatoria»,[3] mentre Jeffrey M. Anderson di Combustible Celluloid scrive: «Lo schema monocromatico tendente al marrone manca della bellezza trascendente di film successivi di Sokurov e può essere impegnativo da affrontare, ma ha anche l'impronta di un maestro».[4]