Luigi Capello | |
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Soprannome | Il macellaio |
Nascita | Intra, 14 aprile 1859 |
Morte | Roma, 25 giugno 1941 |
Dati militari | |
Paese servito | Italia |
Forza armata | Regio Esercito |
Anni di servizio | 1875 – 1920 |
Grado | Generale d'armata |
Guerre | Guerra italo-turca Prima guerra mondiale |
Campagne | Fronte Italiano |
Battaglie | Battaglie dell'Isonzo Battaglia di Caporetto |
Comandante di | VI Corpo d'armata II Armata |
Decorazioni | vedi qui |
Pubblicazioni | vedi qui |
Altre cariche | Politico |
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Luigi Attilio Capello (Intra, 14 aprile 1859 – Roma, 25 giugno 1941) è stato un generale italiano.
Durante la prima guerra mondiale si distinse guidando le sue truppe in una serie di costose offensive sul fronte dell'Isonzo che si conclusero con limitati successi tattici soprattutto a Gorizia e sulla Bainsizza. Assegnato al comando della II Armata, venne sorpreso nelle fasi iniziali della battaglia di Caporetto e non riuscì a fermare l'avanzata del nemico prima di essere costretto a cedere il comando per seri motivi di salute. Considerato responsabile della disfatta, non ritornò più in servizio.
Nonostante la sconfitta, il suo biografo lo presenta come uno dei migliori generali alleati della prima guerra mondiale[1]; dotato di una personalità dominante e di un carattere irrequieto e passionale, il generale dimostrò intelligenza e capacità tattica e strategica. Dotato di grande spirito offensivo, ordinò una serie di attacchi frontali che costarono elevatissime perdite ai suoi soldati, ma secondo lo scrittore Mario Silvestri egli fu, per perspicacia, spirito d'iniziativa e capacità di analisi, "di gran lunga il migliore dei comandanti d'armata dell'esercito italiano"[2].
Dopo la fine della Grande Guerra, si accostò in un primo tempo al Fascismo e partecipò alla Marcia su Roma, per poi divenirne fermo oppositore ed essere coinvolto nel 1925 nel fallito attentato contro Mussolini organizzato dal deputato social-unitario Tito Zaniboni.
Di umili origini, Luigi Capello rivelò una fortissima personalità che gli consentirà di scavalcare i numerosi pregiudizi sociali. Partecipò alla Guerra italo-turca e lo aiutò la sua grande ambizione che venne soddisfatta durante la prima guerra mondiale in seguito alla Sesta battaglia dell'Isonzo, con la conquista della città di Gorizia, a fianco del generale Luigi Cadorna, col quale condivideva anche la forte personalità[3].
Sottotenente nel 1878, frequentò la Scuola di guerra. Divenuto colonnello nel 1910 comandò il 50º Reggimento fanteria. Con il grado di maggior generale comandò la Brigata "Abruzzi" per poi essere destinato in Libia durante la guerra italo-turca dove ebbe il comando di una brigata inquadrata nella 4ª Divisione speciale del generale Ferruccio Trombi, prendendo parte a combattimenti nel settore di Derna. Promosso tenente generale nel 1914 comandò la divisione militare di Cagliari e poi con l'entrata in guerra dell'Italia, avvenuta il 24 maggio 1915, il II Corpo d'armata.[4]
Grazie alla conquista di Gorizia nella sesta battaglia dell'Isonzo, Capello acquisì una grande popolarità, sia tra i ceti minori sia tra le grandi personalità. Da qui la sua carriera conobbe un salto evidente. Dopo un periodo sugli altipiani, gli venne assegnato il comando della 2ª Armata (di stanza nell'Isonzo) che portò alla conquista della Bainsizza nell'undicesima offensiva in quel settore. Ottenne il comando di ben 9 corpi di armata (tra il Monte Rombon e Vipacco). Nel contesto della 2ª Armata fu anche favorevole agli innovatori nelle tattiche offensive, e in particolare appoggiò gli Arditi, tanto da essere malvisto da altri alti ufficiali, che per denigrarlo insinuavano che gli Arditi fossero i pretoriani di Capello, e che Capello fosse un generale che si circondava da reparti fedeli innanzitutto a lui, creando uno strascico di rivalità che contribuirà a isolarlo dopo Caporetto.
Ma il 24 ottobre 1917 tutto crollò. Luigi Capello venne messo al fianco del Generale Cadorna[non è chiaro, sempre al comando della 2 Armata era] al fine di respingere l'offensiva austro-tedesca guidata dai generali Otto von Below, Svetozar Borojević von Bojna e Ferdinand Kosak. Secondo lo storico Alessandro Gualtieri, la colpa di questa sonora sconfitta era da attribuire al Comando Generale che non volle lasciare spazio a Capello, probabilmente l'unico che avrebbe realmente potuto scongiurare l'invasione[3]. Al contrario degli avversari, il regio esercito italiano era fortemente impreparato[in realtà era impreparato a condurre una battaglia difensiva, dopo aver condotto tutte le operazioni sino allora in chiave fortemente offensiva], soprattutto sul piano strategico poiché non era a conoscenza di metodi innovativi che evitavano alle truppe di impantanarsi nella "terra di nessuno" (solo la Germania aveva sviluppato tecniche di combattimento innovative quali l'infiltrazione tramite le Stosstruppen). Si scontrarono i due opposti piani strategici dei generali: da una parte Cadorna voleva una difesa a oltranza al fine di non perdere terreno, per poi contrattaccare; dall'altra Capello intendeva lasciar spazio al nemico, senza sacrificare la prima linea, per poi attaccarlo ai fianchi[3][da chiarire meglio, anche Cadorna non voleva sacrificare la prima linea e aveva ordinato il ritiro dalle posizioni più esposte e un allineamento difensivo sulla destra dell'Isonzo. Gli ordini dettagliati sono illustrati in La disfatta di Caporetto di Saverio Cilibrizzi]
Uomini celebri dell'epoca, però, lo criticarono[Chi oltre a Lussu?]. È il caso di Emilio Lussu che, nel suo Un anno sull'Altipiano, ne traccia un ritratto vivido e acre, criticando la sua distanza dai subordinati e la sua apparente indifferenza per la loro sorte.
Capello si difese da questa accusa in alcune ricerche da lui stesso fatte. L'attuale storiografia militare ha comunque appurato che le responsabilità del generale nella disfatta di Caporetto furono gravissime:[senza fonte] il generale, infatti, in ossequio alla dottrina di Cadorna dell'attacco a tutti i costi, aveva trascurato di organizzare la Seconda armata anche per la difesa, il che portò al completo crollo del tratto di fronte che occupava a causa dell'attacco austro-tedesco. Con la disfatta di Caporetto terminò la sua carriera militare.
Fu in seguito tra i primi ad aderire ai Fasci italiani di combattimento; fu chiamato a presiederne il Congresso di Roma nel novembre 1921[5] e nell'ottobre 1922 prese parte alla Marcia su Roma. In seguito al voto del Gran consiglio del fascismo del 13 febbraio 1923 che dichiarava incompatibile l'adesione al Fascismo e alla Massoneria, Capello dichiarò apertamente la propria appartenenza massonica[5] e abbandonò il PNF[6]; e nel 1924 difese fisicamente dagli attacchi fascisti la sede centrale del Grande Oriente d'Italia, Palazzo Giustiniani[7]. Secondo alcuni storici militari, come Rochat e Schindler, mentre i comandanti italiani della Grande guerra come Diaz e Badoglio furono fatti oggetto di onori da parte del regime, Capello fu emarginato, soprattutto a causa della propria appartenenza alla Massoneria, essendo stato iniziato il 15 aprile 1910 nella loggia "Fides" di Torino[8], avendo poi conseguito il 33° e massimo grado del Rito scozzese antico ed accettato[9].
Capello fu arrestato a Torino con l'accusa di aver preso parte all'organizzazione del fallito attentato contro Mussolini nel 1925 organizzato dal deputato social-unitario Tito Zaniboni. Capello respinse tutte le accuse e dichiarò di aver avuto solo un incontro, il 2 novembre, con Carlo Quaglia, inviato da Zaniboni per potergli consegnare un prestito di 300 lire che serviva per finanziare una manifestazione di reduci antifascisti[10], ma di essere all'oscuro delle reali intenzioni di Zaniboni[10][11]. Secondo le informative di polizia la somma, giunta da Praga e consegnatagli da Quaglia, era stata elargita da un importante massone, il che fece prendere corpo all'idea che nella vicenda vi fosse uno "sfondo massonico"[12], mentre secondo il funzionario di polizia Guido Leto la responsabilità della massoneria italiana, pur data per scontata fin da subito in ambito politico, era stata poi ridimensionata in ambito giudiziario. Ciononostante, essa giustificò per il regime fascista il varo delle leggi miranti alla soppressione della massoneria in Italia, varate già nello stesso anno[13]. Ma le responsabilità di Capello emersero ugualmente, e Zaniboni cercò inutilmente di scagionarlo dal fallito attentato;[11][14] ammettendone però il coinvolgimento, disse: "Avevo notato la sua avversione alla mia azione e l'intenzione di staccarsi da me"[11]. Dal canto suo, Capello si giustificò sostenendo che la propria avversione al Regime non si spingeva comunque fino a voler compiere un attentato.
Nel 1927 fu condannato a trent'anni di carcere, ma venne rimesso in libertà il 22 gennaio 1936[11]. Secondo Guido Leto la condanna abbreviata fu dovuta alla convinzione di Mussolini che, nonostante le prove, in realtà il generale fosse estraneo all'attentato, nonché per il riconoscimento degli importanti meriti di Capello acquisiti nella Grande Guerra[15]; inoltre Mussolini dispose la requisizione di alcuni locali della clinica del dottor Cusumano a Formia, all'interno dei quali (e dell'annesso giardino) Capello ebbe libera circolazione durante la detenzione, seppur sotto vigilanza da parte dei carabinieri[15].
Scarcerato, trascorse gli ultimi anni di vita in un appartamento in via Stazione San Pietro a Roma e le estati a Grottaferrata[16]. Oggi riposa nel cimitero del Verano.
Con decreto del 26 dicembre 1947[17] gli furono restituite tutte le decorazioni militari di cui era insignito, a partire dal 5 agosto dello stesso anno.
La ventitreesima galleria della strada delle 52 gallerie del Monte Pasubio, scavate in occasione dei combattimenti della prima guerra mondiale, porta il suo nome[22].
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