Tiziano Terzani (Firenze, 14 settembre 1938 – Orsigna, 28 luglio 2004[1]) è stato un giornalista e scrittore italiano.
Profondo conoscitore dell’Asia, dove visse per molti anni, Terzani assistette a molti degli eventi che plasmarono tale continente nella seconda metà del ventesimo secolo.[2][3]
Terzani non fu molto conosciuto in Italia durante la sua attività giornalistica, poiché la testata per la quale lavorava principalmente era un periodico tedesco, Der Spiegel (anche se scrisse saltuariamente per molte testate italiane tra cui L'Espresso), mentre oggi è ampiamente riconosciuto quale uno dei massimi scrittori italiani di viaggi del XX secolo,[4] appassionato cronista del proprio tempo, entusiasta ricercatore della verità degli avvenimenti, dei suoi protagonisti e degli uomini suoi compagni di viaggio, fisico e spirituale: una mente tra le più lucide, progressiste e non violente di inizio XXI secolo.[5] La sua attività di scrittore ricade in buona parte nell'ambito della periegesi, termine con cui si intende quel filone storiografico che, intorno a un itinerario geografico, raccoglie notizie storiche su popoli e località, verificate, per quanto possibile, dall'esperienza diretta.
Tiziano Terzani nacque il 14 settembre 1938 a Firenze in via Pisana n°147 nel quartiere di Legnaia zona Monticelli[6] sulla riva sinistra dell'Arno. Il padre, Gerardo Terzani, fu partigiano comunista prima di gestire una piccola officina meccanica a Firenze vicino a Porta Romana e la madre, Lina Venturi, lavorava come cappellaia in un negozio di sartoria. Con la famiglia convivevano la nonna materna Elisa, rimasta vedova dopo i numerosi lutti familiari per tubercolosi – due zie e il nonno Giovanni. Preoccupati per la sua salute i genitori lo porteranno fin da piccolo sull'Appennino pistoiese per godere di un clima salubre:
«L'Orsigna l'ha trovata mio padre [...]. Si era iscritto a quella che si chiamava l'università popolare, che non era un'università, era un club per fare gite. La domenica con un autobus andavano di qua e di là e con una di quelle gite negli anni Venti lui, giovanissimo e operaio, arrivò per la prima volta in questa valle. [...] ero spesso malato, avevo “le ghiandoline” e la carne di cavallo non mi bastava più. «Questo ragazzo ha bisogno d'aria buona, d'aria pulita» disse il medico.»
Il legame con questi luoghi, e in particolare con la valle dell'Orsigna, lo accompagnò per tutta la vita.
Nei primi di agosto del 1944 la ritirata dei nazisti sulla Linea Gotica e l'avanzata alleata delle truppe britanniche portò alla liberazione di Firenze[7], ciò gli consentì di frequentare la prima elementare presso il convento femminile della Chiesa di San Piero a Monticelli. L'anno seguente, con la riapertura regolare degli istituti, proseguì gli studi nella Scuola di Legnaia[8]. Dal 1949 al 1952 frequentò le scuole medie Niccolò Machiavelli in piazza Frescobaldi. Dopo l'esame di terza media avvenne una svolta decisiva,
«A lui debbo tutto perché lui prese la decisione importante di chiamare i miei genitori. Sai, a quei tempi, andare dal maestro... [...] e lui che dice “Guardate, dovete fare dei sacrifici. Lo dovete mandare al ginnasio”. [...] I miei si convinsero di mandarmi al ginnasio. E lì ci fu l'episodio famoso dei primi pantaloni lunghi comprati a rate.»
I genitori impegnarono gli averi al Monte di Pietà e acquistarono a rate i pantaloni che consentirono a Tiziano di frequentare la succursale della Machiavelli in piazza Pitti. Dal 1954 proseguì gli studi al Liceo classico statale Galileo dove si diplomerà brillantemente nel 1957. In quegli anni frequentò i "Sabati dello studente" in via Gino Capponi, un circolo ricreativo in cui soddisfece la passione per il cinema e il teatro misurandosi anche in sporadiche recitazioni. Qui conobbe e avvicinò i rappresentanti del cattolicesimo democratico e progressista fiorentino come Dino Pieraccioni, Ernesto Balducci, Raffaele Bensi e Giorgio La Pira:
«Frequentavo l'oratorio di don Bensi, un bel personaggio cattolico; ho conosciuto La Pira e tanta altra gente con cui avrei potuto fare strada. Ma sentivo che quello non ero io.»
Raccolse da questi incontri il valore dell'umanità e apprese il senso non solo del dialogo ma dell'autonomia delle proprie idee, già sperimentata in casa con il padre comunista e la madre cattolica.
Nel 1955 per guadagnare qualche soldo collaborò al Giornale del Mattino diretto dal giovanissimo Ettore Bernabei. Nei panni di cronista sportivo ebbe il compito di documentare le corse podistiche, le gare in bicicletta e soprattutto le partite di calcio del Campionato nazionale Dilettanti coprendo in particolare la provincia di Firenze muovendosi con la Vespa del padre:
«Diventai giornalista perché alle corse podistiche arrivavo sempre ultimo. Ero studente in un liceo di Firenze e mi ostinavo a partecipare a tutte le campestri che si tenevano alle Cascine. Non avevo alcun successo tranne quello di far ridere i miei compagni. Una volta, alla fine di una di quelle corse in cui ero davvero arrivato quando il pubblico stava già andando via, venne da me un signore sui trent'anni con un taccuino in mano e mi disse qualcosa come: «Sei studente? E allora, invece di partecipare alle corse, descrivile!». Avevo incontrato il primo giornalista della mia vita e, a sedici anni, avevo avuto la mia prima offerta di lavoro: cronista sportivo al «Giornale del mattino». Cominciai con le corse a piedi, passai a quelle in bicicletta e poi alle partite di calcio. Le domeniche, invece che alle feste da ballo, le passai da allora andando a giro per i paesi e le cittadine della Toscana con una vecchia Vespa 98. «Largo, c'è i' giornalista» dicevano gli organizzatori quando mi presentavo. Ero un ragazzino e di sport me ne intendevo poco o nulla, ma quella qualifica mi dava lì per lì il diritto a un buon posto d'osservazione e il giorno dopo il diritto alla mia firma in testa a un articoletto con tanto di descrizioni e giudizi sulle pagine rosa del giornale della città. A quei due diritti – direi privilegi – son rimasto attaccato tutta la vita.»
Nel 1956, nel periodo drammatico della Rivoluzione ungherese, si iscrisse alla sezione fiorentina della Gioventù Federalista Europea, l'organizzazione giovanile del Movimento Federalista Europeo fondato da Altiero Spinelli. Un'adesione temporanea ma che rivela la capacità di non allinearsi ai pensieri dominanti dell'epoca, quello di matrice cattolica legata alla Democrazia Cristiana e quello marxista legato al Partito comunista.
Nell'estate del 1957 appena diplomato ricevette un'offerta di lavoro dalla Banca Toscana, che rifiutò:
«Io ero terrorizzato, per me era la morte civile. Però avevo tutta la famiglia contro.»
Sfidando il parere dei genitori tentò l'ammissione al collegio Medico-Giuridico annesso alla Scuola Normale di Pisa. Nel concorso nazionale che offriva solo cinque posti, arrivò secondo. Scelse la facoltà di Giurisprudenza.
Nel mese di settembre conobbe una ragazza di origini tedesche, Angela Staude[9], nata a Firenze nell'aprile 1939, figlia del pittore Hans-Joachim[10] e dell'architetta Renate Moenckeberg. Gli Staude abitavano in via delle Campora sulla collina di Bellosguardo, erano noti per essere una famiglia colta ma non convenzionale che vantava tra i propri avi esploratori, accademici e amicizie eccellenti come Maria 'Maja' Einstein[11] o Maria José del Belgio [12][13]. Tiziano fu colpito dall'atmosfera casalinga e poliglotta dove arte e musica si mescolavano alle biografie avventurose della famiglia Staude, un entusiasmo che gli fece avvertire la differenza con le proprie origini certamente più umili:
«Fin da piccolo io sentivo che non c'entravo con Monticelli, che non era quello il mio mondo. Con tutto il rispetto che ho avuto per i miei genitori – perché sono stati meravigliosi, hanno fatto di tutto per me – ma insomma, non erano la mia famiglia.»
Seppur divisi dagli studi − Tiziano a Pisa e Angela a Monaco − mantennero i contatti. All'Università Tiziano conobbe e frequentò molti amici tra cui Alberto De Maio[14], Giuliano Amato[15], Carlo Donolo, Enrico Mugnaini[16]. La vita in collegio fu estremamente stimolante:
«Il significato particolare della storia deriva proprio dal contesto in cui si svolge: il Collegio Medico-Giuridico annesso alla Scuola Normale. Che quindi fu la palestra della nostra formazione professionale ma soprattutto culturale, alimentata da un continuo confronto tra allievi. S'imparava a conoscersi e a migliorarsi. Per esempio, Tiziano si abituò a frenare la sua esuberanza e ad incanalarla positivamente. Si studiava molto e si discuteva altrettanto. Si era immersi in un ambiente variamente stimolante. Io introdussi e animai il dibattito sulla questione meridionale e lui mi affiancava con molta partecipazione intellettuale ed emotiva, raccolse anche del materiale per scrivere un libro sull'emigrazione dalla Calabria. Il clima di libertà e di orientamento progressista gli era adattissimo e ne sviluppò la sensibilità verso le questioni sociali. In un ambiente ideale per coltivarsi, più dei testi di diritto leggeva saggi di attualità e s'interessava di tutto, perfino di cinema, trovando di che alimentare quest'altra passione vedendo i film da cineteca classica al Cineclub normalista. Poi magari ne discuteva fino a notte inoltrata. Tiziano lo ha sempre ripetuto, in seguito: che nel collegio normalista era cresciuto moltissimo.»
Ma l'esperienza universitaria venne segnata da due eventi drammatici: nel 1958 una grave infezione tubercolotica lo costrinse a un lungo ricovero al Careggi e un anno più tardi una trombosi colpì il padre rendendolo inabile al lavoro. Le ristrettezze economiche e il bisogno di contribuire al sostentamento dei genitori alimentarono l'inquietudine e il desiderio di fuga immaginando una vita differente e autonoma. Si laureò nel 1961 a pieni voti presentando una impegnativa tesi di diritto internazionale con il giurista Giuseppe Sperduti[17] dal titolo Il Dominio riservato. Una tesi che richiama i caratteri, le inclinazioni e gli interessi che manifesterà più avanti nella professione giornalistica[18].
Dopo la laurea fallì il tentativo di continuare gli studi all'Università di Leeds, avventura che durò appena 5 mesi:
«Dovevo trovare un sistema per camparci, ma non volevo mettermi a lavorare come tutti gli altri, volevo fare qualcosa di diverso, volevo continuare a studiare. [...] mandammo decine di lettere in tutto il mondo raccontando il mio curriculum e chiedendo una borsa di studio. L'unica che ci rispose fu l'università di Leeds nello Yorkshire […] io, senza un soldo, mi sentivo una grande responsabilità e tornammo in Italia con le pive nel sacco. Eravamo partiti trionfalmente. Non finii nemmeno l'anno a Leeds. Per me la più grande sconfitta sarebbe stata di dover riportare la Mamma a casa sua, dove il nonno voleva ancora che ci sposassimo.»
Rientrato in Italia accettò la proposta dell'Olivetti di Ivrea grazie ai contatti con l'ex collegiale Romano Gabriele[19]. Una scelta vicina al proprio modello di società[20]:
«Per cinque anni ho fatto il manager all'Olivetti; vi ero entrato come giovane laureato con lode alla Normale di Pisa. Avevo scelto l'Olivetti, perché a quel tempo un giovane come me, che veniva da una famiglia povera e che voleva impegnarsi socialmente aveva la scelta tra l'Olivetti e il Partito comunista. Io scelsi l'Olivetti perché rappresentava la modernità. Perché era moderna l'Olivetti di Adriano? Cosa c'era di grandioso e che oggi non riesco più a vedere in questo sistema economico, esclusivamente fondato sul concetto di crescita? Certo, anche allora bisognava produrre macchine da scrivere e venderle, ma il processo non era fine a se stesso o funzionale alla crescita; era funzionale a qualcos'altro, un qualcosa che Adriano Olivetti chiamava comunità, che, attraverso l'azienda cresceva in cultura, in comunicazione in senso di fratellanza; era cioè un progetto culturale e sociale e questo secondo me era un grande aspetto positivo dell'economia.»
Qui, dopo un lungo tirocinio, giunse all'ufficio del personale dove conobbe Paolo Volponi, Ottiero Ottieri e Giancarlo Lunati ricevendo l'incarico di reclutare nuovi laureati per le consociate estere. L'Olivetti, forte della sua rete globale di concessionarie e fabbriche gli consentì di viaggiare in tutto il mondo. Il 27 novembre 1962, pochi mesi dopo l'assunzione, sposò Angela a Vinci. Il lavoro dell'Olivetti lo portò prima a viaggiare in tutta Europa – con lunghi soggiorni in Danimarca, Portogallo, Paesi Bassi, Gran Bretagna – e successivamente in Oriente. Nel gennaio 1965 arrivò in Giappone, fu la sua prima volta in Asia. Qui visitò anche Hong Kong e il sogno della Cina iniziò a prendere forma. Nel 1966 acquistò con i primi risparmi un terreno nella valle dell'Orsigna dove negli anni a venire costruì una piccola abitazione.
L'esperienza in Olivetti è raccontata nell'antologia di scritti pubblicata da Edizioni di Comunità Il pensiero irriducibile, ISBN 978-88-320-0516-5.
Nell'autunno 1967 l'Olivetti lo mandò in Sud Africa, a Johannesburg. Vi giunse pochi giorni dopo l'assassinio del Primo ministro Verwoerd in un clima di forti tensioni politiche. In questo paese segnato dall'apartheid raccolse materiali, interviste e fotografie per redigere i primi reportage che pubblicò su L'Astrolabio, settimanale della sinistra indipendente diretto da Ferruccio Parri. Il primo reportage s'intitola Natale negro. Rapporto sulla segregazione in Sud Africa pubblicato il 25 dicembre 1966. La collaborazione con la rivista terminò nel novembre 1970. Dopo aver viaggiato in Australia e Thailandia, insoddisfatto del lavoro all'Olivetti, prese l'aspettativa, e su indicazione di Samuel Gorley Putt[21] - conosciuto per caso alla Hopkins University di Bologna[22] - si aggiudicò una borsa di studio che gli aprì le porte della Columbia University di New York dove scelse il corso di laurea in Affari internazionali.
La borsa di studio del Commonwealth Fund's Fellowship programme gli consentì di viaggiare in tutto il paese. Continuò a scrivere per L'Astrolabio raccontando le lotte civili del movimento nero intervistando Rap Brown, gli scontri tra gli studenti pacifisti che manifestavano contro la guerra in Vietnam e le forze di polizia nella protesta della Columbia University, e un evento storico come l'allunaggio dell'Apollo 11. Durante il biennio americano sfruttò l'occasione di uno stage nella redazione del New York Times:
«Sono andato a fare uno stage al New York Times! [...] Ho passato una settimana bellissima perché mi hanno messo a lavorare, a girellare fra i banconi della cronaca e poi della redazione esteri. [...] Leggendo il giornalismo americano, per il quale ho avuto un enorme rispetto, sono nati i miei eroi. Perché questo è uno dei lati più belli, più generosi, più intelligenti, più forti della società americana: questa libertà di espressione, questa mancanza di rispetto per il potere, che poi si identificava con la mia visione anarchica delle cose.»
Nel 1968 si trasferì in California frequentando la Stanford University dove imparò la lingua cinese. Si interessò allo studio del maoismo e del comunismo cinese, incuriosito dalla grande eco che la Rivoluzione culturale di Mao stava avendo in tutto il mondo. Ebbe l'occasione di conoscere e intervistare William Hinton che lo affascinò con la sua esperienza cinese. Si convinse che la sua missione era di andare in Cina per verificare di persona quanto aveva studiato sui libri e sui giornali. Tra le fonti che ispirarono il suo sogno ci sono i testi di un grande reporter come Edgar Snow.
Dopo i numerosi testi pubblicati su L'Astrolabio, nell'aprile del 1969 l'ordine dei Giornalisti lo registrò ufficialmente nell'elenco "pubblicisti": una qualifica che aspettava da tempo. In agosto a New York nacque il figlio Folco. Laureatosi per la seconda volta, in settembre rientrò in Italia. Lasciò definitivamente l'Olivetti e cercò un'occupazione come giornalista.
Alla fine di novembre del 1969 iniziò il praticantato nella redazione del quotidiano milanese Il Giorno[23] diretto da Italo Pietra e Angelo Rozzoni[24]. Qui conobbe inviati già affermati come Natalia Aspesi, Giorgio Bocca, Giampaolo Pansa e uno dei giornalisti ai quali fu legato da profonda amicizia, Bernardo Valli[25]. Nel marzo del 1971 nacque la figlia Saskia e all'inizio dell'estate sostenne l'esame di Stato per diventare giornalista professionista. In autunno si confrontò con il direttore confidando in un incarico all'estero, ma la risposta fu lapidaria:
«"Direttore" dissi, "io non ci sto bene in un giornale. Voglio andare a fare il corrispondente in Cina." E lui, un po' scherzando, un po' sul serio, rispose: "Questo giornale non ha bisogno di corrispondenti. L'unico posto libero è a Brescia. Ci starai coi piedi nel fango e la testa legata a una stellina".»
Deciso a perseguire il prossimo sogno di corrispondente, si dimise. Girò tutta l'Europa alla ricerca di un posto di lavoro finché l'occasione arrivò dal settimanale amburghese Der Spiegel diretto da Rudolf Augstein che gli offrì un contratto da free lance per coprire il Sud-est asiatico.
Nel gennaio 1972 si stabilì a Singapore in Winchester Road aprendo il primo ufficio di Der Spiegel in Peck Hay Road.
«L'ultima fase della guerra iniziò poco dopo che la Mamma arrivò con voi a Singapore, nella primavera del 1972. Ci stabilimmo in quella casa, scoppiò una grande offensiva in Vietnam e io partii. Così comincia la mia carriera.»
Impegnato al fronte pubblicò il suo primo vero reportage per il settimanale amburghese[26]. Contemporaneamente coltivò la collaborazione con L'Espresso - il settimanale romano diretto da Livio Zanetti con vicedirettore Nello Ajello - pubblicando importanti articoli e misurandosi sulle stesse pagine con le opinioni di Furio Colombo, Camilla Cederna e Alberto Moravia. A questo aggiunse il rapporto con il quotidiano milanese Il Giorno.
Il 1973 fu un anno delicato: il 23 luglio morì il suocero, Hans-Joachim Staude, e quattro giorni dopo scomparve anche Raffaele Mattioli, l'economista e dirigente della Banca Commerciale Italiana che per primo aveva creduto in lui commissionandogli rapporti politici ed economici dall'Estremo Oriente[27]. In novembre pubblicò per Feltrinelli la sua prima opera letteraria Pelle di leopardo. Diario vietnamita di un corrispondente di guerra 1972-1973, inserito nella collana Franchi Narratori. Renzo Foa fu tra i primi a leggerlo e recensirlo:
«Undici mesi di guerra in Sud Vietnam, quelli decisivi, dell'aprile del ‘72 al febbraio del ‘73, sono minuziosamente ricostruiti nel diario di un giornalista che ha visitato diversi fronti (da Quang Tri al delta del Mekong), trascrivendo con cura gli episodi più rilevanti, riferendo i giudizi più significativi, interpretando gli umori, le aspirazioni, la stanchezza della gente. In questo viene compiuta una radiografia completa del regime di Thieu, del suo isolamento politico, della forza militare che gli americani gli hanno dato, come insostituibile puntello, ma anche della precarietà delle sue strutture, del marciume che le ha rese fragili.»
Dal luglio 1974 al maggio 1975 Terzani collaborò anche con Il Messaggero, diretto in quel periodo da Italo Pietra[28]. Nel 1975 fu tra i pochi giornalisti non solo ad assistere alla caduta di Saigon, ma a rimanervi per tre mesi dopo la presa del potere da parte delle forze comuniste:
«Gli americani scappavano con quegli elicotteri con i fari, la gente ci si attaccava e veniva ributtata di sotto. All'ambasciata americana c'era il caos. Quella notte sentivi la Storia. […] E quando vidi i primi carri armati entrare nella città, e la prima camionetta carica di ribelli, di vietcong, venire giù per rue Catinat con loro che urlavano Giai Phong! Liberazione! per me era la Storia. Piansi. Non soltanto all'idea che la guerra era finita, ma perché sentivo la Storia. Quella era la Storia. E infatti, a ripensarci trent'anni dopo, quel giorno ha cambiato la storia dell'Indocina.»
Alla fine del 1975 si trasferì con tutta la famiglia a Hong Kong abitando sul Peak in Mount Austin Road in un caseggiato con altri giornalisti. Questo essere alle porte della Cina alimentò il suo interesse e il sogno di trasferirsi sul territorio cinese.
Nel 1976 iniziò a collaborare con la Repubblica, il nuovo quotidiano diretto da Eugenio Scalfari finanziato da Carlo Caracciolo e Giorgio Mondadori che contava una settantina di redattori oltre a molti volontari tra cui Giorgio Bocca, Miriam Mafai e Barbara Spinelli. Alla fine di marzo pubblicò sempre per Feltrinelli Giai Phong! La liberazione di Saigon con cui si aggiudicò il Premio Pozzale Luigi Russo per la saggistica. La giuria era composta da Ernesto Balducci, Gian Carlo Ferretti, Giovanni Giudici, Cesare Luporini, Walter Pedullà[29]. Nel mese di ottobre ebbe la possibilità di viaggiare fino a Shanghai raccogliendo le prime impressioni sulla politica e sulla società cinese sconvolta dalla morte di Mao avvenuta il 9 settembre. Si occuperà nei mesi successivi del processo alla Banda dei Quattro.
Nel 1977 fu testimone della tragedia dei profughi indocinesi, dramma che preannunciava nel 1978 l'invasione della Cambogia da parte del Vietnam. Questo conflitto militare lo impegnò per molto tempo. Raccolse dapprima con incredulità e poi con sgomento i racconti e le atrocità di ciò che poi si rivelerà essere l'olocausto cambogiano[30] perpetrato da Pol Pot. La moglie Angela ha raccolto questa esperienza in una antologia postuma, Fantasmi. Dispacci dalla Cambogia,[31] pubblicata nel 2008 dalla Longanesi.
Dopo un viaggio preliminare per Der Spiegel tra fine del 1979 ed i primi giorni del 1980, Terzani riuscì a stabilirsi definitivamente a Pechino[32] come primo corrispondente di un magazine occidentale, anticipando i concorrenti TIME e Newsweek, realizzando così a 41 anni un sogno concepito nelle aule della Stanford University. Nel 1984, per aver scritto articoli critici contro il governo cinese e la grande rivoluzione culturale, fu arrestato con l'accusa di "insulti al presidente Mao e trasporto e possesso di tesori nazionali", trattenuto e interrogato un mese, e poi espulso come persona non gradita.[33] Da questa esperienza nacque il libro La porta proibita. Visse in seguito per un po' a Bangkok in Thailandia.
«Ormai mi incuriosisce di più morire. Mi dispiace che non potrò scriverne»
Il libro Un altro giro di giostra tratta del suo modo di reagire alla malattia, un tumore all'intestino, viaggiando per il mondo e osservando con lo stesso spirito giornalistico di sempre le tecniche della più moderna medicina occidentale e le medicine alternative; il viaggio più difficile, tentativi alla ricerca di trovare una cura efficace; una volta resosi conto dell'implacabilità del male, si concentrò in una ricerca della pace interiore, che lo portò ad accettare serenamente la morte.
«Viaggiare era sempre stato per me un modo di vivere – si legge nel libro – e ora avevo preso la malattia come un altro viaggio: un viaggio involontario, non previsto, per il quale non avevo carte geografiche, per il quale non mi ero in alcun modo preparato, ma che di tutti i viaggi fatti fino ad allora era il più impegnativo, il più intenso.»
Terzani si ritirò in Asia per diversi anni, grazie all'amicizia con Pietro Della Torre, vivendo anche sulle pendici dell'Himalaya e in un ashram di Tamil Nadu (India), e incontrando il XIV Dalai Lama e il XVII Karmapa.[34] Nell'autunno del 2001, dopo gli attentati dell'11 settembre, fece il suo ultimo viaggio giornalistico in Afghanistan durante la guerra, e scrisse le Lettere contro la guerra, un testo pacifista in risposta a La rabbia e l'orgoglio di Oriana Fallaci.[35] In seguito trascorse i suoi ultimi giorni ad Orsigna, borgo montano del comune di Pistoia, il rifugio di una vita, sull'Appennino pistoiese, spegnendosi il 28 luglio 2004. La ricerca della verità si spostò dai fatti all'interiorità, portandolo a concepire il giornalismo solo come una fase della sua vita.[36]
Le sue ultime memorie sono registrate in un'intervista televisiva intitolata Anam, il senzanome (dove Terzani parla anche della sua scelta etica in favore del vegetarismo[37]) e nel libro postumo La fine è il mio inizio, in cui Terzani riferisce al figlio Folco le proprie riflessioni di tutta una vita.
Il 7 ottobre 2010 nelle sale tedesche è uscito il film basato sul suo ultimo libro, La fine è il mio inizio, con lo stesso titolo. Il lungometraggio sceneggiato dal figlio Folco Terzani[38] e Ulrich Limmer è stato diretto da Jo Baier e girato nella stessa casa di Terzani all'Orsigna sulla Montagna pistoiese. Il film è stato distribuito in Italia da Fandango a partire dal 1º aprile 2011. Tra gli interpreti Bruno Ganz nei panni di Terzani, Elio Germano nei panni del figlio Folco, Erika Pluhar nei panni della moglie Angela Staude e l'attrice ungherese Andrea Osvárt nel ruolo della figlia Saskia. Le musiche originali sono state composte dal pianista torinese Ludovico Einaudi.
In occasione del decennale della morte di Terzani, è stata lanciata sul web la campagna di crowdfunding per produrre un film tratto dal libro Un indovino mi disse di Tiziano Terzani. L'idea è del regista Mario Zanot, autore di Anam il senzanome, l'ultima intervista allo scrittore scomparso nel 2004. Per promuovere il progetto, è stato fondato il Comitato Un indovino ci disse. Il film che ha organizzato serate di raccolta fondi in tutta Italia. Il progetto è stato poi chiuso ufficialmente a dicembre 2016 ed il Comitato è stato sciolto nel corso del 2017; i fondi raccolti sono stati devoluti ad Emergency, per l'ospedale afghano di Lashkar-gah, intitolato a Terzani.
A Tiziano Terzani sono stati intitolati nel tempo locali e spazi pubblici sia sul territorio nazionale che all'estero:
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