Giacomo Giuseppe Costa | |
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Ministro di grazia e giustizia del Regno d'Italia | |
Durata mandato | 10 marzo 1896 – 15 agosto 1897 |
Monarca | Umberto I di Savoia |
Capo del governo | Antonio di Rudinì |
Predecessore | Vincenzo Calenda di Tavani |
Successore | Antonio di Rudinì |
Legislatura | XIX, XX |
Senatore del Regno d'Italia | |
Durata mandato | 14 giugno 1886 – 15 agosto 1897 |
Legislatura | dalla XVI (nomina 7 giugno 1886) |
Tipo nomina | Categoria: 13 |
Sito istituzionale | |
Dati generali | |
Titolo di studio | Laurea in giurisprudenza |
Università | Università di Genova |
Professione | Magistrato |
Giacomo Giuseppe Costa (Milano, 24 novembre 1833 – Ovada, 15 agosto 1897) è stato un magistrato e politico italiano, già avvocato generale erariale, senatore del Regno d'Italia e Guardasigilli.
Ancora in fasce rimane orfano del padre Giacomo, originario di Santa Margherita Ligure; la madre Luigia Missaglia[1] trova però appoggio a Gallarate, presso la sua famiglia, di origine benestante, che si prende cura di lei e del figlio[2].
Il giovane Costa inizia così gli studi a Gallarate per poi trasferirsi di nuovo a Milano a terminare quelli classici, con il desiderio di iscriversi all'università. Milano però, nel 1853, fa parte del Regno Lombardo-Veneto e per il Costa si avvicina la chiamata per assolvere gli obblighi di leva sotto l'Impero austriaco. La volontà del giovane studente è però un'altra, come ci ricorda Giuseppe Saracco, in veste di Presidente del Senato, nella commemorazione tenuta il 16 ottobre 1898 in Ovada: «che per consiglio dei parenti, e per volontà di lui, che fra i compagni di scuola era chiamato il "carlista" perché soleva parlare con entusiasmo, fin da ragazzo, di Re Carlo Alberto e della Dinastia Sabauda, fu allora che avendo a disegno conservata la cittadinanza sarda, riparò a Genova in prossimità dei congiunti dal lato paterno[3]».
All'Ateneo genovese si iscrive alla facoltà di giurisprudenza dove si laurea nel 1858 a pieni voti e lode seguendo un breve periodo di pratica forense. Nel 1859, finita la dominazione austriaca, torna a Milano partecipando ad alcune Commissioni governative per l'esame del codice penale e civile e del disegno di legge per l'ordinamento giudiziario (evidentemente in relazione ai problemi di coordimento che si ponevano a seguito dell'annessione della Lombardia al Regno di Sardegna[4]). Per l'apprezzamento riscosso per i servizi resi nelle suddette Commissioni, secondo quanto riferisce il Saracco[3], viene chiamato, nel luglio 1860, ad entrare in Magistratura presso la Corte d'Appello di Milano, dove rimane fino al 1867 con il grado di Sostituto Procuratore Generale, partecipando a «molti e clamorosi processi penali, specialmente di stampa[3]», alcuni dei quali a carico di Felice Cavallotti in veste di direttore del Gazzettino Rosa[5].
Nella sua carriera in Magistratura assunse gli incarichi di Procuratore Generale presso le Corti d'Appello di Venezia, Genova, Ancona e Palermo.
Il 12 giugno 1885 muore Giuseppe Mantellini, creatore dell'Avvocatura Erariale, e su proposta del Presidente del Consiglio Depretis, viene chiamato a succedergli (Regio Decreto del 29 ottobre 1885)[6].
Nel 1886 è nominato Senatore del Regno e i suoi numerosi interventi (spesso in qualità di relatore di progetti di legge) sono ampiamente documentati presso l'Archivio del Senato. Nel 1894 sostiene il delicatissimo e difficile ufficio di relatore della Commissione istituita dal guardasigilli per accertare la responsabilità dei funzionari giudiziari che avevano preso parte all'istruttoria del processo per i fatti della Banca Romana[7].
Il 10 marzo 1896 assume la carica di Ministro Guardasigilli nel Governo Rudinì, formatosi dopo le dimissioni del ministero Crispi a causa della sconfitta di Adua[8]). È confermato anche nel rimpasto dopo la crisi dell'11 luglio 1896. Regge tale carica per circa quindici mesi sino alla morte, avvenuta il 15 agosto 1897 a causa di una grave forma tumorale. Il Presidente del Senato Domenico Farini ricorda, che, durante un colloquio privato svoltosi il 4 febbraio 1897, Umberto I ebbe a dirgli: «Ha visto Costa? È, molto giù, molto giù». Il 2 marzo successivo annota: «Mariotti mi assicura che il Guardasigilli Costa ha un male di vescica incurabile» e il 1º aprile: «Saracco [...] continua dicendo essere Costa un uomo condannato»[9]. Malgrado la malattia, negli ultimi giorni di giugno e i primi di luglio il Costa sostiene la complessa discussione del bilancio del suo Ministero. Ma, come si legge nella commemorazione tenutasi presso il Senato, la situazione peggiora: «[...] Di giorno in giorno apparivano sul suo volto emaciato i progressi della malattia; i medici gli raccomandavano il riposo; ma egli, sempre sereno, negava d'essere ammalato e si rifiutava a desistere dal lavoro. Nei primi giorni dell'estate gli giunge una improvvisa terribile notizia: la morte quasi istantanea di un suo figliuolo a Torino. Ed egli, padre infelicissimo, si concede appena ventiquattr'ore per accorrere colà e comporre nella fossa la salma del giovane diletto. Soltanto dopo finita la discussione del suo bilancio in Senato, acconsentì a ritirarsi colla famiglia nella quiete della campagna; ma era troppo tardi. Non era scorso un mese quando egli si sentì prossimo alla fine. Negli ultimi istanti inviò agli augusti Sovrani un telegramma in questi termini: "Morendo, mando a V.M. l'estremo saluto e l'espressione della mia devozione, che cessa soltanto colla vita". Il Re da Valsavaranche, la Regina da Gressoney rispondevano profondamente commossi, facendo voti per la conservazione dell'amico. Quando i due telegrammi reali arrivarono ad Ovada, il nobile infermo aveva cessato di soffrire. Sue ultime parole, dirette alla degna consorte, furono: "Vado a raggiungere nostro figlio"[7]».
Si spegne ad Ovada, sua dimora d'elezione dal 1860 dopo il matrimonio con la diciassettenne ovadese Maria Luigia Pesci, alle 17.20 del 15 agosto 1897.
«Con la morte del senatore Giacomo Costa, di Lei consorte, la Nazione ha perduto un sapiente ed integro Magistrato, il mio Governo un operoso e valente cooperatore, la mia Casa un amico affezionato e fedele[10]»
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