Gaetano Salvemini | |
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Deputato del Regno d'Italia | |
Durata mandato | 1º dicembre 1919 – 7 aprile 1921 |
Legislatura | XXV |
Sito istituzionale | |
Dati generali | |
Partito politico | Partito Socialista Italiano |
Titolo di studio | Laurea in Lettere |
Università | Università degli Studi di Firenze |
Professione | Insegnante, giornalista pubblicista |
Gaetano Salvemini (Molfetta, 8 settembre 1873[1] – Sorrento, 6 settembre 1957) è stato uno storico, politico e antifascista italiano.
«Noi non possiamo essere imparziali. Possiamo essere soltanto intellettualmente onesti: cioè renderci conto delle nostre passioni, tenerci in guardia contro di esse e mettere in guardia i nostri lettori contro i pericoli della nostra parzialità. L'imparzialità è un sogno, la probità è un dovere.»
Laureatosi in lettere a Firenze nel 1895, inizialmente si dedicò alla storia medioevale, sotto la guida dello storico Pasquale Villari, dimostrandosi uno dei migliori giovani storici della sua epoca. Dopo aver insegnato latino dall'ottobre 1895 in una scuola media di Palermo, fu professore di Storia e Geografia dal 1896 nel Liceo Torricelli di Faenza[2] e dal 1898 nel liceo classico "Pietro Verri" di Lodi[3].
A ventotto anni ottenne la cattedra di Storia moderna a Messina (1901). Qui nel 1908, a causa del catastrofico terremoto, perse la moglie, i cinque figli e la sorella, rimanendo l'unico sopravvissuto di tutta la sua famiglia; aveva 35 anni. Dal 1910 insegnò storia all'Università di Pisa e infine dal 1916 a quella di Firenze. Tra i suoi allievi vi furono Carlo Rosselli, Federico Chabod, Ernesto Rossi e Camillo Berneri.
Fu membro dell'Accademia Peloritana dei Pericolanti[4].
Aderì al Partito Socialista Italiano e alla corrente meridionalista, collaborando, dal 1897, alla rivista Critica Sociale, mostrandosi tenace sostenitore del suffragio universale e del federalismo, visto come unica possibilità per risolvere la questione del Mezzogiorno[5], cercando di condurre su posizioni meridionaliste il movimento socialista e insistendo sulla necessità di un collegamento tra operai del nord e contadini del sud, sulla necessità dell'abolizione del protezionismo e delle tariffe doganali di Stato (che proteggono l'industria privilegiata e danneggiano i consumatori), e della formazione di una piccola proprietà contadina che liquidasse il latifondo[6].
Salvemini denunciò il malcostume politico e le gravi responsabilità di Giolitti (dissesto della Banca Romana) con il libro: "Il ministro della mala vita" (1910). Esponente della corrente meridionalista del PSI, si scontrò sui temi sopra citati con la corrente maggioritaria di Filippo Turati, alimentando il dibattito interno al partito. In seguito però a una mancata manifestazione del partito contro lo scoppio della guerra italo-turca (1911),[7] uscì dal partito socialista.
Assiduo collaboratore della rivista fiorentina «La Voce», nell'autunno del 1911 il periodico sceglie di appoggiare la Campagna di Libia. In predicato di assumerne la direzione, Salvemini abbandona La Voce per fondare, il 16 dicembre 1911, il settimanale «L'Unità»[8]. Il programma della rivista rispecchia le idee del fondatore: la vera unità italiana deve essere realizzata con l'autonomia e il federalismo[5]. Salvemini diresse L'Unità fino al 1920; nello stesso periodo lavorò al progetto di fondare un nuovo partito, meridionalista, socialista nei fini di giustizia e liberale nel metodo, contro ogni privilegio: la Lega Democratica per il rinnovamento della politica nazionale. Mussolini nel 1914 lo invitò a rientrare nel Partito Socialista.
Nel 1914 passò su posizioni interventiste, dichiarandosi convinto del carattere "anacronistico" degli imperi austro-ungarico e tedesco e auspicandone la distruzione, nell'interesse dell'Italia. Nell'ottobre 1914 si complimentò con lo stesso Mussolini quando abbandonò le posizioni neutraliste. Salvemini fu uno dei capofila del cosiddetto interventismo democratico, che giustificava la guerra da posizioni "di sinistra": in nome cioè dell'ostilità all'antico ordine e in funzione dell'autoaffermazione dei popoli. Un'impostazione, questa, in linea con quella del presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson, fautore dell'entrata in guerra degli Stati Uniti a fianco delle potenze dell'Intesa. Con l'ingresso dell'Italia nella prima guerra mondiale, si arruolò volontario ma fu congedato per malattia nel dicembre del 1915.
Nel 1916 Salvemini si sposò con Fernande Dauriac, figlia del filosofo e storico Lionel Dauriac. Economista ed editrice presso le edizioni Stock, Fernande era la ex moglie di Julien Luchaire (il fondatore dell'Istituto francese di Firenze), madre di Jean Luchaire (Siena, 21 luglio 1901 – Fort de Châtillon, Parigi, 22 febbraio 1946) e di Marguerite Luchaire che, nata il 25 dicembre 1904, nel 1933 avrebbe sposato lo psicanalista Théodore Fraenkel, cofondatore del dadaismo a Parigi[9].
Sul finire della guerra Salvemini espresse però la propria delusione per la mancata realizzazione delle speranze in un superamento delle rivalità antipopolari tra gli Stati e in una partecipazione democratica dei popoli alle decisioni dei governi.
Eletto deputato nel 1919 in una lista combattentistica, lo rimase fino all'aprile 1921, quando non si ricandidò, invitando a votare PSI. Apprese a Parigi della marcia su Roma, nell'ottobre 1922, e con l'avvento del fascismo, si schierò contro Mussolini, aderendo al PSU di Turati. Tuttavia, Salvemini, come altri intellettuali del tempo, sottovalutò inizialmente il fascismo, ritenendolo una «disgustosa tragedia brigantesca e carnevalesca» che non sarebbe durata a lungo dopo il delitto Matteotti, ucciso nel giugno 1924[10]. Strinse dal 1923 un profondo sodalizio ideale e politico con i fratelli Carlo Rosselli e Nello Rosselli e con Ernesto Rossi, che videro in lui un comune maestro.
Nel 1925 fu tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce, mentre nello stesso anno Salvemini, i due Fratelli Rosselli e Nello Traquandi fondarono a Firenze un giornale antifascista clandestino, il Non Mollare.
Arrestato a Roma dalla polizia fascista l'8 giugno del 1925, dopo esser stato processato insieme con Ernesto Rossi, poté godere di un'amnistia in luglio.
Nell'agosto 1925 si rifugiò in Francia e in novembre si dimise dall'università di Firenze. Raccolse elementi per la pubblicazione, nel 1927 a New York, e Londra nel 1928, di The Fascist Dictatorship in Italy: egli «sin dall’agosto del 1925 aveva trafugato fuori dall’Italia una copia della requisitoria del Pubblico Ministero nell’inchiesta del Senato sulle accuse mosse da Giuseppe Donati contro il direttore generale della pubblica sicurezza generale De Bono, riuscì ad ottenere nel 1926 da G. E. Modigliani e Umberto Zanotti-Bianco la copia dell’istruttoria del processo Matteotti promosso dalla Corte d’Appello di Roma. Dopo averli utilizzati per il suo libro The Fascist Dictatorship pubblicato a Londra nel 1928, Salvemini depositò quei documenti presso la biblioteca della London School of Economics dove sono ancora oggi a disposizione degli studiosi»[11].
A Parigi fu poi raggiunto dai fratelli Rosselli e nel novembre del 1929 fu tra i fondatori del movimento Giustizia e Libertà (GL), nato per iniziativa dei fratelli Rosselli e di altri intellettuali democratici tra cui Emilio Lussu, Alberto Tarchiani, Francesco Fausto Nitti e Alberto Cianca. Gruppi di GL si formarono in Italia soprattutto tra studenti universitari. Molti degli aderenti di GL (tra cui Ernesto Rossi, Ferruccio Parri, Leone Ginzburg) furono arrestati e condannati a lunghe pene detentive.
Salvemini si trasferì poi in Gran Bretagna, dove fu protagonista di una dura polemica con George Bernard Shaw[12].
Arthur Meier Schlesinger Sr., presidente del dipartimento di storia dell'Università di Harvard degli Stati Uniti d'America, nel 1929 invitò Gaetano Salvemini a insegnare a Harvard e Salvemini dal 1933 fu membro a pieno titolo del dipartimento, ottenendo una cattedra di storia della civiltà italiana e prendendo anche alla fine del 1940, la cittadinanza statunitense.
A partire dal 1943 pubblicò Le lezioni di Harvard sulle Origini del fascismo in Italia. Destinate a suoi studenti americani, esse chiarificavano e rendevano più comprensibili situazioni e fenomeni della storia italiana, con un'esposizione di straordinaria nitidezza, facendo di quest'opera uno strumento prezioso per coloro che non conobbero il fascismo. Le lezioni hanno un tono più meditato e meno polemico rispetto ad altri scritti precedenti sul fascismo; quest'opera costituisce quindi il pensiero salveminiano più maturo intorno al fascismo, riconfermando l'idea di Salvemini che l'insegnamento della storia sia il più valido strumento di libera educazione civile.
Salvemini fu inoltre una figura familiare negli anni della gioventù di Arthur Schlesinger Jr., redattore dei discorsi elettorali detti allora della Nuova Frontiera per John F. Kennedy[13][14].
Profonda, pur con molti dissensi, l'amicizia che lo legò in questi anni a un altro grande esule antifascista: don Luigi Sturzo, fondatore del Ppi, testimoniata da un fitto carteggio. Fu inoltre in rapporti di reciproca stima con Arturo Toscanini.
Durante la seconda guerra mondiale Salvemini tenne negli Stati Uniti d'America, nel Regno Unito e in Francia, conferenze e lezioni universitarie, si batté per una politica contro fascismo, bolscevismo, clericalismo e monarchia italiana. Nel 1939 fondò la Mazzini Society, insieme con un gruppo di aderenti a GL, di repubblicani e antifascisti democratici, tra cui Lionello Venturi, Giuseppe Antonio Borgese, Randolfo Pacciardi, Michele Cantarella, Aldo Garosci, Carlo Sforza, Alberto Tarchiani e Max Ascoli. La loro posizione era contraria alla monarchia e all'accordo stipulato a Tolosa fra comunisti, socialisti e altri aderenti a GL.
In questo periodo di esilio Salvemini pubblicò vari volumi in lingua inglese, tra i quali The Fascist Dictatorship in Italy (1928), Under the Axe of Fascism (1936) e Prelude to World War II.
Dopo un breve viaggio nel 1947, tornò definitivamente in Italia nel 1949 e riprese l'insegnamento all'Università di Firenze per un biennio. In occasione della lezione inaugurale, esordì con la frase: "Come stavamo dicendo l'ultima volta..."[15], riprendendo un espediente retorico codificato in una storica frase d'autore latina, "dicebamus externa die".
Continuò a vari livelli la sua lotta politica, ispirata a una visione laica della vita, all'avversione contro dogmatismi e fumosità ideologiche, contro la burocrazia, il clericalismo e lo statalismo, quale fautore di un riformismo democratico, in comunità d'intenti con Ernesto Rossi[16].
Si oppose al governo democristiano e al Fronte Democratico Popolare, sostenendo la necessità di abrogare il Concordato e i Patti Lateranensi e difendendo la scuola pubblica contro le riforme, da lui giudicate reazionarie, dei governi. Nel 1954 rinunciò alla cittadinanza statunitense per motivi politici.
Nel 1955 ottenne dall'Accademia dei Lincei il premio internazionale Feltrinelli per la storia[17] e la laurea honoris causa dall'Università di Oxford.
Morì a Sorrento, dove oggi si trova un liceo scientifico a lui dedicato, il 6 settembre 1957, due giorni prima di compiere 84 anni. È sepolto a Firenze, nel prato d'onore del cimitero di Trespiano[18]. Nello stesso anno ottenne postumo il premio Crotone[19] per Scritti sulla Questione meridionale.
Dal 1998 i documenti digitalizzati dell'archivio Salvemini sono stati resi disponibili in rete a cura dello storico Roberto Vivarelli e dell'archivista Stefano Vitali[20].
Membro non allineato del Partito Socialista, Salvemini rimase sempre indipendente nelle proprie opinioni rispetto a quelle della maggioranza: la sua concezione politica era originale, e a un convinto socialismo di tendenza meridionalista che affondava le proprie radici nel radicalismo repubblicano risorgimentale, egli affiancava un deciso liberismo economico, in polemica con il protezionismo e lo statalismo. Il suo fu perciò un singolare caso di socialismo liberale, che anticipò le idee dei fratelli Rosselli. Il suo anticlericalismo, motivato oltre che dalla difesa dello Stato laico anche da una profonda avversione per la religione cattolica in generale (nonostante la vicinanza a eminenti personaggi del mondo cattolico come don Sturzo, o Arturo Carlo Jemolo), era accompagnato da un parallelo antibolscevismo, che lo portò a opporsi alla scelta del PSI, che era stato il suo partito, di allearsi con il PCI in vista delle elezioni del 1948, oltre che da un antifascismo che non vacillò nemmeno negli anni del massimo consenso del regime mussoliniano. Nonostante la propria profonda avversione per il clericalismo e il partito cattolico, proprio per quest'ultimo Salvemini invitò a votare in un momento difficile della vita politica nazionale: a lui si sarebbe rifatto anni dopo il giornalista Indro Montanelli con la sua celeberrima frase "Turatevi il naso, ma votate DC!".
«La politica scolastica del partito clericale non può essere in Italia che una sola: deprimere la scuola pubblica, non far nulla per migliorarla e più largamente dotarla; favorire le scuole private confessionali con sussidi pubblici, e con sedi d'esami, con pareggiamenti; rafforzata a poco a poco la scuola privata confessionale e disorganizzata la scuola pubblica, sopprimere al momento opportuno questa e presentare come unica salvatrice della gioventù quella. Programma terribilmente pericoloso perché non richiede nessuno sforzo di lotta attenta ed attiva ma solo di una tranquilla e costante inerzia, troppo comoda per i nostri burocrati e per i nostri politicanti, troppo facile per l'oligarchia opportunista che ci sgoverna.»
«Storici risorgimentalisti si nasce o si diventa? Ovviamente, con un Risorgimento non del tutto concluso, si diventa. Emblematico il caso di Gaetano Salvemini che, prima di occuparsi da par suo delle vicende dell'unificazione italiana, si è imposto come capofila del rinnovamento della storiografia medievale italiana. In quel 1899 in cui esce il suo capolavoro Magnati e popolani a Firenze dal 1280 al 1285 Salvemini fa uscire anche I partiti politici italiani nel secolo XIX. È il primo lavoro di una serrata serie di saggi che, dopo il Mazzini (1905) e La Triplice Alleanza (1916-17), culminò nel 1925 con L'Italia politica del XIX secolo. La stessa acribia con cui ha lavorato sulle fonti medievali la riversa su vicende assai più vicine e che coinvolgono il suo impegno politico, senza tuttavia derogare mai da un rigore storiografico ammirevole. "L'imparzialità - ammonisce - è un sogno. La probità un dovere"»[21].
Poiché gli studi di storia diplomatica erano "monopolio di esponenti politici e giornalisti" e i tentativi di "vere storie ufficiali della politica estera furono criticati negli ambienti accademici, che lamentavano l'indisponibilità delle fonti", è rimarchevole la posizione di Salvemini[22]: "pur riconoscendo l'interesse dello Stato alla tutela del segreto diplomatico, sosteneva, e non si poteva dargli torto, che una cautela di questo genere era giusta finché valeva per tutti gli studiosi"[23].
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