Frequentò l'oratorio di don Giuseppe Prati, conosciuto come don Pippo, che gli trasmise la passione per il teatro. Scrisse le sue prime composizioni, tra il 1931 e il 1935, per il teatro della parrocchia di San Luigi di Forlì.
La sua prima opera, I fiori del dolore (1931), fu dedicata espressamente: «A don Pippo, che per primo mi insegnò come fecondare di dolore le aiuole dei fiori». Nello stesso anno il regime decise la chiusura dei circoli cattolici. La scelta di campo di Fabbri fu netta: non si iscrisse ai Gruppi universitari fascisti (GUF). Nel 1936 si laureò in Economia e commercio all'Università di Bologna affrontando la discussione in camicia bianca, anziché quella nera.[1] Nel 1937 si sposò con Giuliana Facciani (da cui ebbe sette figli), nel 1939 si trasferì a Roma; lavorò nella casa editrice Ave dell'Azione cattolica, nella quale proseguì la sua carriera artistica.
svolse la professione di giornalista: dal 1948 fu condirettore della Fiera letteraria (allora diretta dal poeta Vincenzo Cardarelli), quindi direttore fino al 1967. Diresse inoltre Il dramma (dal 1977);
per la radio e la televisione curò l'adattamento di drammi e romanzi, dando vita a fortunati sceneggiati, diretti da registi famosi, come Sandro Bolchi.
Nel 1946 scrisse Inquisizione, che nel 1950 venne rappresentato con successo a Milano e che l'autore portò alla ribalta anche a Parigi, dove si trasferì nel 1952 per un breve periodo di tempo.
Nel 1955 al Piccolo Teatro di Milano rappresentò Processo a Gesù, considerato uno dei suoi capolavori, per la regia di Orazio Costa, che in seguito dirigerà la messa in scena di altri suoi lavori. Cattolico praticante, espresse grande rammarico quando il suo dramma venne denunciato al Sant'Uffizio per «offesa alla religione e istigazione all'odio sociale»[3].
Nel 1965 pubblicò un articolo[5] in cui enunciò la sua concezione di arte, che era agli antipodi della concezione marxista di "arte politica" e criticava il processo, già in atto, per il quale gli intellettuali erano diventati degli strumenti in mano alle forze politiche:
«Con una massiccia operazione di politica culturale, è stato imposto il teatro marxista di Brecht, ai danni di quello, di tanto più grande, di Pirandello, ostracizzato sbrigativamente come "individualismo borghese". (…) Un piano di persuasione attraverso Brecht e il brechtismo si è svolto incontrastato in Italia attraverso una serie ininterrotta di spettacoli reclamizzati in modo imponente, artisticamente ineccepibili, scenicamente suggestivi e intimidatori, grazie all'aiuto concreto e, almeno dopo qualche tempo, consapevole dello Stato che pur marxista non era e, almeno a parole, non voleva essere. (…) Le voci spiritualmente più importanti, personali e ascoltate dal pubblico erano state gradualmente messe in silenzio o relegate ai margini della vita teatrale ufficiale.»
Fabbri non aveva difficoltà a riconoscere all'arte una valenza sociale, ma non le attribuiva anche una dimensione politica. Egli si ricollegava, infatti, alla tradizione europea dell'interiorità, risalente a Platone, per cui l'uomo è irriducibile al politico:
«L'arte è per sua natura sociale. Si scrive, si dipinge, si scolpisce per gli altri, pur esprimendo l'essenza più profonda di sé. Però, proprio perché sento l'arte come un fatto sociale, auspico che l'artista sia "apolitico" nel senso di sentirsi svincolato dai singoli partiti, di sentirsi invece posto al servizio dell'uomo, che è, sì, anche un animale politico, ma non soltanto politico. Direi che l'eccellenza dell'uomo risiede proprio in ciò che di meno politico è in lui, cioè in quel tanto di assoluto, in quella fiammella di eterno che si sente dentro. Credo che l'artista debba operare per svegliare e dilatare questa scintilla di assoluto che è in tutti, e che ci fa veramente uomini»
^Franzo Zaghini in Personaggi della vita pubblica di Forlì e del circondario, vol. 1, Urbino, Edizioni Quattroventi, 1996, pp. 363-364.
^Alberto Mazzuca, Penne al vetriolo. I grandi giornalisti raccontano la Prima Repubblica, Bologna, Minerva, 2017, pp. 130-131.
^Non era la prima volta che una sua opera era additata come "antisociale": già nel 1940 il Ministero della cultura popolare fascista aveva vietato il suo dramma Paludi, definito «precoce pessimismo».
^Incontro romano della cultura: Roma 11-14 Maggio 1962, Roma, Lintotypia-Tipografia Dario Detti, 1962.
1954 Francesco Cedrangolo, Silvio Garattini, Tommaso Lucherini, Pietro Valdoni · 1957 Michele Arslan, Ida Bianco, Vittorio Erspamer, Ezio Silvestroni, Luigi Villa · 1959 Sergio Abeatici, Luigi Campi, Raoul De Nunno, Francesco Morino, Gian Franco Rossi, Alberto Zanchetti · 1961 Giovanni Marcozzi · 1963 Vincenzo G. Longo · 1965 Enrico Greppi · 1967 Giovanni Felice Azzone